Editoriale, bambini maggio 2013
"Fino a non molto tempo fa, c’era solo la tv, che in
teoria poteva rimanere confinata nella stanza dei
genitori o chiusa in un armadio. Oggi ci sono gli
smartphone e gli iPad, che fanno parte della vita
quotidiana delle famiglie. Per gli adulti i passatempi dell’infanzia
hanno subito un’allarmante trasformazione in pochissimo
tempo. Ma un bambino che oggi ha quattro anni non sa com’era
il mondo prima: per lui è sempre stato possibile fare tante
cose con un solo dito, e trovare centinaia di giochi in un piccolo
oggetto tascabile”.
I bambini che oggi entrano e frequentano nidi e scuole dell’infanzia
portano esperienze, domande, comportamenti, competenze
che si dispiegano nel quotidiano ed esigono reazioni e
risposte immediate.
L’ atteggiamento con cui il mondo adulto si pone è in affanno.
Nel 1999 l’American academy of pediatrics aveva sconsigliato
la tv per i bambini al di sotto dei 2 anni, citando alcune ricerche
sullo sviluppo del cervello che dimostravano quanto fossero
importante per i bambini in quella fascia d’età le “interazioni
con i genitori e gli altri adulti che si occupano di loro”.
Nell’ultimo rapporto del 2011 l’associazione ammette che da
allora le cose sono cambiate ma continua a sconsigliare l’uso
di mezzi passivi e di qualsiasi schermo. Ma nel frattempo
si sono diffuse le applicazioni interattive. E il quadro si è di
nuovo modificato.
D’altra parte fino a oggi nessun istituto di ricerca ha dimostrato
in modo definitivo se il tablet renderà i nostri bambini più
intelligenti, ma neanche se brucerà i loro circuiti neuronali.
Quindi cosa dobbiamo fare?
Risale al 2001 la definizione di “nativi digitali” coniata
da Marc Prensky per indicare la prima generazione
di bambini cresciuti a stretto contatto con i computer,
i videogame e altri congegni tecnologici. Ma
il termine assume un nuovo significato a partire dall’aprile
2010, quando è uscito sul mercato l’iPad. Prima i bambini dovevano
aspettare che fossero i genitori a insegnar loro come
usare un mouse o un telecomando, e avevano difficoltà a capire
il collegamento tra quello che facevano con la mano e quello
che succedeva sullo schermo. Con l’iPad il collegamento è
evidente, anche per un bambino. Il touchscreen segue la stessa
logica del sonaglino o dei blocchi da costruzione: il bambino
tocca e succede qualcosa.
Per i bambini è meno magico di quanto si possa pensare.
Quando sono molto piccoli possiedono quella che la psicologia
ha definito la capacità di rappresentazione enattiva: non
classificano gli oggetti del mondo con parole e simboli, ma
con gesti, per esempio portandosi un bicchiere immaginario
alle labbra per far capire che hanno sete. Le loro mani sono il
naturale prolungamento dei loro pensieri.
Tutti i nuovi mezzi di comunicazione, poco dopo la
loro introduzione, sono stati accusati di essere pericolosi
per i bambini. La letteratura scadente avrebbe
distrutto i loro principi morali, la tv avrebbe rovinato
loro la vista, i videogiochi li avrebbero resi violenti. Tutti sono
stati accusati di far perdere ai bambini il tempo che avrebbero
potuto sfruttare per imparare la storia, giocare con gli amici o
infilare i piedi nella sabbia. La nostra generazione si preoccupa
in modo particolare del cervello dei bambini, delle sinapsi
inutilizzate che avvizziscono mentre fissano uno schermo.
Tutti si preoccupano del fatto che la tv possa provocare la sindrome
da defi citdi attenzione e iperattività, anche se questo
timore si basa su ricerche che sono state molto criticate e non
corrisponde a nulla di quanto sappiamo su quei disturbi.
Da quando gli schermi sono entrati nelle nostre case, molti
osservatori hanno cominciato a temere che potessero renderci
stupidi. In realtà lo stato fisiologico di un telespettatore è
molto simile a quello di una persona immersa nella lettura di
un libro perché durante entrambe le attività siamo tranquilli,
concentrati e mentalmente attivi.
Le ricerche di Dan Anderson all’Università del Massachusetts
sono giunte alla conclusione che “a partire da due anni e
mezzo, quando guardano la tv i bambini sono cognitivamente
attivi”. Gli esperimenti di Anderson hanno portato alla conclusione
che anche i bambini molto piccoli sono spettatori
attenti, che il loro cervello non si spegne, ma si sforza di dare
un senso a quello che vede e cerca di trasformarlo in un racconto coerente: “i bambini sono in grado di fare deduzioni e di
elaborare informazioni”, “e possono imparare molte cose, sia
giuste che sbagliate”.
Ancor più questa considerazione vale nei confronti dei videogiochi:
“…i videogiochi non rappresentano, forse, la minaccia
sociale che molti temono. Si tratta di sistemi sempre più
complessi nei quali il giocatore per avanzare in una partita e
per divertirsi deve scambiare continuamente opinioni con i suoi
compagni ed è per questo che il gioco diventa spesso il mezzo
per entrare e vivere nella comunità dei pari e che, in qualche
modo, aiuta a gestire il passaggio dalla comunità familiare a
quella sociale”.
Dice l’esperto di educazione e tecnologia Marc Prensky: “La guerra è finita. I nativi digitali hanno vinto”.
La sua filosofi a genitoriale è estremamente radicale.
Il suo bambino di 7 anni legge libri, guarda la tv, gioca
con le costruzioni e con la Playstation, e lui tratta tutte queste
cose nello stesso modo. Non pone nessun limite. A volte suo
figlio gioca con una nuova app per ore, ma poi, dice, si stanca.
“Viviamo nell’era degli schermi, e dire a un bambino «Sono contento
quando leggi un libro ma non mi piace quando guardi
quello schermo» è ridicolo. Riflette i nostri pregiudizi. È solo
paura del cambiamento, di essere tagliati fuori”.
Questo non vuol dire arrendersi e adeguarsi acriticamente a
tutto quello che ci viene proposto. Lisa Guernsey suggerisce
di basare le scelte su tre elementi: il contenuto, il contesto
e il tipo di bambino. Pone domande del tipo: pensate che il
contenuto sia appropriato? Il tempo che passa davanti a uno
schermo è “una percentuale relativamente piccola rispetto a
quello che passa con voi e interagendo con il mondo reale?”.
Lisa Guernsey consiglia di basare le regole sulle risposte a
queste domande, bambino per bambino. E sottolinea quanto
sia importante l’atteggiamento dell’adulto (educatore e genitore)
nei confronti delle tecnologie. Se pensano che il tempo
passato davanti a uno schermo sia come il cibo spazzatura o “come le riviste che si leggono dal parrucchiere”, anche il bambino
assumerà quell’atteggiamento e la nevrosi sarà trasmessa
alla generazione successiva.
Riflettendo, possiamo dire veramente che un libro è
sempre meglio di uno schermo? C’è chi usa i libri
per evitare i rapporti sociali, mentre altri bambini
usano la Playstation per stare con gli amici.
Ci sono molti elementi di novità, di cambiamento in essere.
Non possiamo recepirli passivamente o fare resistenza. D’altro
canto dobbiamo riconoscere la nostra ignoranza. È un
mondo diverso, un approccio diverso all’apprendimento.
Se siamo coerenti con il concetto di educazione rispettoso
dell’altro, sta a noi sforzarci di conoscere, di capire, di adattarci
a un processo diverso.
Abbiamo davanti non più solo il bambino dei cento linguaggi,
ma un bambino che parla lingue a noi sconosciute. E su questo
terreno siamo chiamati a cimentarci.
Ferruccio Cremaschi
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