di Elisabetta
Marazzi
La nostra vita quotidiana è
governata da un continuo conto alla rovescia, da una costante rincorsa in cui
siamo sempre a chiederci: “E adesso cosa
facciamo?” o a dire ai bambini cosa
devono fare, come se “fermarsi” e “stare” siano indicatori dell’inadeguatezza.
“Gli studi di
sociologia del tempo considerano il tempo come il frutto di una costruzione
sociale e di una dialettica tra il sistema di esperienza-condotta individuale e
i sistemi collettivi di organizzazione delle attività. In questa prospettiva
l’esperienza di socializzazione all’uso del tempo è per il bambino una forma di
apprendimento e interiorizzazione dei modi di concepire e vivere il tempo in uso
nella società cui appartiene” (A.
Bondioli, G. Nigito, a cura di, Tempi, spazi, raggruppamenti,
Edizioni Junior, Azzano S. Paolo, Bg, 2008). È la società a dettare sovente i
tempi, è il contesto in cui viviamo a scandire i ritmi della vita di ciascuno e
in questa scansione i bambini cercano di comprendere come tenere insieme tutti
i loro pezzi: quelli della relazione, del gioco, dell’esperienza proposta
dall’adulto a scuola e a casa. I bambini ci osservano, ascoltano e rispondono
alle nostre, talvolta, troppo frenetiche richieste e quando provano a
rallentare i nostri tempi li reputiamo poco interessati, inattivi o oppositivi.
La loro inattività viene scambiata quasi per pigrizia anziché per bisogno di
elaborazione degli apprendimenti e ridefinizione del proprio essere nello
spazio e nel tempo di appartenenza: “La moltiplicazione di stimoli […] crea una massa di dati che chi
li subisce non è messo nella condizione di poterli assimilare, nel nostro caso
di renderli esperienza […] gli episodi non accedono ad unità, rimangono gli
urti, gli chocs, le combinazioni casuali. Il
comportamento rischia di perdere quella dimensione di riflessione
indispensabile a renderlo atto libero e responsabile. Viene annullata la
sensazione di appartenenza di sé rispetto ai propri vissuti” (P. Malavasi, a cura di, Pedagogia dell’ambiente, ISU,
Milano, 2005).
Ecco allora che
riappropriarsi del tempo e dei tempi di vita, di lavoro, di gioco e di ozio
(inteso come un fare altro) permetterebbe ai bambini di occuparsi della
narrazione di sé e delle esperienze vissute per rielaborarle e farle proprie.
Impadronirsi nuovamente di tali tempi significa assumersi la responsabilità, in
qualità di professionisti, di scegliere come organizzare e gestire i tempi dei
servizi educativi in modo tale che siano efficaci per la narratività dei
bambini e non per la richiesta acritica di alcune scelte sociali, per la
narrazione di un processo e non per la realizzazione di un prodotto: “Una buona organizzazione è quella che
presenta un disegno chiaro degli eventi della giornata, un’articolazione dei
momenti di routine e di attività che si mantiene stabile nel corso del tempo
[…]. L’agenda della giornata non deve tuttavia essere assolta in modo rigido,
ma così da tenere conto delle esigenze impreviste sia dei singoli che del
gruppo e senza trascurare le ricadute educative che una tale organizzazione –
con i suoi ritmi, scansioni e alternanze, con le esperienze e le attività che
propone – può di giorno in giorno determinare” (Bondioli e Nigito, op. cit.).
Un bel dì il Cappellaio
Matto di Lewis Carrol disse ad Alice: “Se tu conoscessi il Tempo come lo conosco io, non ne parleresti
con tanta confidenza. […] Se invece ti fossi mantenuta in buoni rapporti con
lui, farebbe fare al tuo orologio tutto quello che vuoi”... che avesse ragione?!
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