Francesco Barone
Pedagogista - Docente di Metodologia del gioco
Università di L’Aquila
La consapevolezza dell’efficacia e dell’urgenza diapprendimenti “sul campo”, oggi rischia di essere travolta da un triste e
pericoloso approdo alle realtà virtuali, distanti dalla vita dei
bambini, dalle loro esperienze e dalla possibilità di un vissuto emotivo
autentico. Emerge sempre con maggiore intensità, che l’impianto educativo
disciplinare scava un solco profondo tra saperi ed esperienze scolastiche ed
extra-scolastiche, tra epistemologie del controllo procedurale ed epistemologie
dell’evoluzione. L’idea pedagogica sottesa all’interesse per i luoghi e gli
spazi “formali ed informali”, vuole ispirarsi a una visione pratica
dell’apprendimento, volta a stimolare la relazione interpersonale, l’osservazione
e la ricerca dei significati. In poche parole, si insegna e si impara
ascoltando, facendo e vedendo fare. Questo tipo di apprendimento è certamente
molto importante, in quanto, gran parte di ciò che si apprende in molte
situazioni della vita di ogni giorno, deriva dall’osservazione diretta delle
cose e delle persone. Come per esempio, un bambino impara osservando le
espressioni e i comportamenti della “sua” educatrice/insegnante.
Apprendere
osservando è un processo efficace che in molti casi consente il miglioramento
dei laboriosi meccanismi o del modellamento del comportamento. Più in generale,
si può ritenere che un apprendimento è il risultato dell’interazione
contemporanea con un ambiente fisico, con un contesto sociale e con l’ambito
individuale. Educare e insegnare nel luogo, significa rendere quel luogo,
scuola o luogo educativo. Una didattica che fa del luogo non soltanto il suo
oggetto di speculazione scientifica, ma lo assume come strumento e opportunità
di crescita per l’individuo, si inserisce coerentemente in un’ottica di
rispetto e di valorizzazione dei processi socio-affettivi dell’individuo
medesimo. Ecco perché si può affermare che pianificare un percorso
didattico-educativo in un “luogo”, significa anche ritenerlo un “laboratorio delle
emozioni”. Come è noto, una delle sfide della scuola e della società attuale,
risiede proprio nella capacità di contrapporre i luoghi antropologici ai
non-luoghi, ossia a tutti quegli spazi in cui
milioni di individui, pur incrociandosi, non entrano mai efficacemente
in relazione tra loro. Per tali ragioni, infatti, un luogo educativo è prima di
tutto un contesto in cui emerge la necessità di creare buone relazioni. Nei
luoghi educativi bisognerebbe parlare sottovoce, lentamente e con l’intento di
farsi comprendere. L’educatrice/insegnante dovrebbe proporsi come fosse un
ponte, figura che meglio di altre esprime l’idea e la necessità di comunicare. Il ponte è il luogo dove
nessuno si sente straniero, è lo spazio che unisce parti visibilmente opposte. Il ponte è testimone muto di coloro che tante
conoscenze vorrebbero esprimere e rivelare e che per ragioni legate alle regole
dello sviluppo evolutivo non sono in grado di fare. Poiché “tutto è passaggio”, si è sempre più desiderosi di andare verso
l’altra parte per cercare qualcosa su cui riflettere o più semplicemente
custodire. Meglio di qualsiasi altra cosa, il ponte rappresenta la speranza di
riuscire a collegare, unire, integrare e ci si auspica che questa speranza non
venga mai disattesa. Questa struttura, a volte sospesa, altre volte sorretta da
massicci pilastri, consente di consegnare, accompagnare e aiutare. Il ponte
permette all’individuo di comprendere ciò che ha costruito per il superamento
della propria solitudine e della propria individualità. Dove ci sono i ponti,
c’è fusione e contaminazione, c’è l’esperienza di unità e diversità. Laddove ci
sono gli educatori e gli insegnanti, dovrebbe prevalere la consapevolezza del
delicato e significativo compito cui sono chiamati a svolgere. Tale consapevolezza
scaturisce dall’acquisizione del senso della “pedagogia molecolare”, in cui l’insegnante saprà riconoscersi come
tale, se sarà in grado di essere competente, avere passione per il proprio
lavoro e rispettare concretamente i propri allievi. Il ponte unisce due sponde
e non ostacola il fluire delle cose che al di sotto scorrono. A volte oscilla
troppo, scatenando la paura di cadere nel vuoto, altre volte, invece, appare
perfettamente stabile consentendo il susseguirsi di passi sicuri diretti verso
nuove mete. L’immagine del ponte come simbolo, denota la volontà della persona di
voler superare l’isolamento. E’ questo suo carattere “motorio” che consente alla
persona di mettere in moto la propria immaginazione, pensando a quanti corpi e
idee nel tempo trascorso l’hanno attraversato. Il ponte rappresenta lo spazio
di condivisione dove si combinano giochi, realtà e paradossi, e, nel contempo,
si configura come luogo neutro, a volte triste, altre volte allegro, costretto
a volte, ad osservare due danze opposte che preferiscono confliggersi anziché
fondersi. Il ponte, però, non rappresenta esclusivamente l’idea di passaggio,
di attraversamento, è il simbolo vivente della storia e custodisce pezzi di
memorie umane. L’allargamento degli orizzonti da parte di ciascuno è condizione
necessaria per comprenderli. Dunque, si può senz’altro ritenere che un luogo
educativo di apprendimento, accresce la sua autenticità se possiede una sua
storia, una sua memoria e una sua chiara identità. Un approccio in questa
direzione, non può non ricorrere a una ri-definizione anche dei luoghiin cui:
1. il sapere è da intendere come “opera aperta”, ossia come intreccio tra saper fare, saper ascoltare, saper stare insieme agli altri, al fine di superare le eventuali trappole epistemologiche dei concetti;
2. l’apprendimento, da intendere come condizione aperta al riconoscimento della condivisone dei saperi;
3. il sapere da intendere come processo dinamico di nomadismo delle idee.
Si potrà parlare, in tal senso, di un tipo di apprendimento evolutivo, che consentirà ai bambini di prepararsi per stare insieme e viaggiare i mondi. Sarà così possibile aprire un percorso di complementarietà in grado di fare emergere l’opportunità di sviluppare i “valori evolutivi” connessialla promozione delle “etiche evolutive”, quali ad esempio, l’etica relazionale e l’etica sociale.
All’educatrice viene così affidato il compito e la possibilità di
rappresentarsi come ponte, per consentire ai bambini di posizionarsi e
osservare le parole che scorrono e che costituiscono i mattoni con i quali costruire la loro storia.
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