In breve:
due articoli:
Bruno Ciari: il bambino tecnologico, a cura di Battista Quinto Borghi
[...] “In verità, purtroppo, ...non si parte affatto dal fanciullo; il maestro... ha già pronto, se è diligente, tutto il suo programma di esercitazioni; ha in testa il suo “metodo”... il ragazzo diventa subito schiavo del procedimento”; la sua personalità, la sua esperienza di vita, è rimasta fuori... (da: Bruno Ciari, Le nuove tecniche didattiche, Editori riuniti, Roma, 1971, p. 19).
Quale didattica al nido? di Aldo Fortunati e Gloria Tognetti
[...] Un progetto didattico in quanto tale non può essere completamente predeterminato ma deve prevedere un margine di flessibilità che permetta il suo rimodellamento in base ai feedbacks provenienti dall'esperienza, un progressivo riaggiustamento collegato a quanto i bambini, agendo al suo interno, ci fanno capire rispetto alla adeguatezza della proposta. [...]
due Pillole di Effe
Senza titolo... ovvero “gioco per un dito che esplora il colore dentro al piatto”
[...] “A loro piace molto giocare con i travasi - commenta l’insegnante – è un’attività che proponiamo spesso ai bambini di tre anni.” [...]
Contorni da rispettare
[...] anche questa tecnica, come tutte, rischia di prendere la mano a chi la utilizza: ritagliando un disegno [di un bambino] si possono eliminare segni che si ritengono sbagliati o inutili, [...] Conseguentemente, guardando il risultato finale diventa impossibile capire se siamo davanti a un prodotto infantile confezionato da un adulto o a un prodotto adulto che utilizza un elaborato infantile. [...]
Ecco i materiali
Bruno Ciari: il bambino
tecnologico
Bambini, maggio 2000
Note d'archivio
a cura di Battista Quinto Borghi
Direttore delle scuole
dell'infanzia del Comune di Brescia
Il volume di Bruno Ciari, “Le
nuove tecniche didattiche”, pubblicato nel 1961, rappresenta un contributo che,
in quegli anni, fu destinato ad incidere profondamente sul rinnovamento della
scuola di base in Italia.
Bruno Ciari era un maestro
elementare, ammiratore della tenace attività di Célestin Freinet ed attivista
del Movimento di Cooperazione Educativa, che si proponeva di offrire agli
insegnanti uno strumento che voleva essere un aiuto concreto per i maestri
nella loro pratica educativa e formativa quotidiana.
Il libro è organizzato in sette
capitoli. Il volume si muove nella scia, in quegli anni non ancora certamente
esaurita, dell'attivismo pedagogico.
Si presenta, a prima vista, come
un repertorio di proposte di attività: il disegno e la pittura, la lingua, la
ricerca scientifica e la matematica.
Le tesi di fondo di Bruno Ciari
sembrano essere due: da un lato, egli sostiene che occorre partire sempre dal
bambino, dall'altro, che è indispensabile, per una scuola valida, puntare sui
saperi. Si tratta di due assunti solo apparentemente inconciliabili.
Da una parte incontriamo un
bambino inteso come ampiamente disponibile
alla conoscenza ed
all'esperienza. Dall'altra si può correre il rischio che l'insegnante, che
incontra quello stesso bambino, abbia già nella testa un proprio metodo, abbia
già individuato a monte un proprio percorso che il bambino dovrebbe limitarsi a
seguire.
Il rischio, temuto per la scuola
di allora, era che l'insegnante non sentisse il bisogno di conoscere a fondo i
singoli bambini per portare avanti il proprio progetto.
“In verità, purtroppo, ... non si
parte affatto dal fanciullo; il maestro... ha già pronto, se è diligente, tutto
il suo programma di esercitazioni; ha in testa il suo 'metodo'... Il ragazzo
diventa subito schiavo del 'procedimento'; la sua personalità, la sua
esperienza di vita, è rimasta fuori..." (B. Ciari, Le nuove tecniche
didattiche, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 19)..
Più oltre, Ciari dichiara, a
proposito delle scienze, che "la conoscenza scientifica ha inizio con
l'atto stesso della nascita... Che vuol dire conoscere scientificamente il
mondo se non prendere atto dell'esistenza dei fenomeni, per utilizzarli e
trasformarli?" (Ciari, op. cit., p. 150).
Insomma, secondo Ciari, da un
lato occorre puntare sul protagonismo del bambino, dall'altro, sulla validità
del contenuto.
Il bambino è, in altre parole,
artefice della propria crescita. La scuola, compresa quella dell'infanzia, è
perciò, essenzialmente e inevitabilmente, un luogo di azione. Un luogo nel
quale i bambini e le bambine fanno continuamente delle cose.
Il bambino in età della scuola
dell'infanzia avverte il bisogno delle attività più svariate, di provare e di
provarsi.
È continuamente in movimento, in
ogni istante è impegnato a fare qualcosa.
E il compito della scuola è di
trasformare l'esperienza dei bambini facendola passare da un movimento
disordinato e dispersivo a un ritmo ordinato e costruttivo. La scuola
dell'infanzia aiuta il bambino ad organizzarsi e ad organizzare la realtà che
gli sta intorno.
Dal testo di Ciari emerge
un'attenzione forte alle nuove ricerche di quegli anni sullo sviluppo
psicologico; la conclusione alla quale arriva è che il contenuto è importante:
le abilità e le conoscenze specifiche sono paganti sul piano dello sviluppo in generale.
In altre parole, le esperienze
che vengono proposte ai bambini non sono indifferenti: i bambini imparano
soprattutto quando fanno le cose, quando vi si immergono, quando riescono ad
essere concentrati per la soluzione di un problema.
I bambini non risolvono mai un
problema in generale, ma sempre quel determinato e specifico problema che li
coinvolge in quel determinato momento.
È solo risolvendo un problema
specifico che si crea un habitus, una predisposizione a lavorare per soluzione
di problemi.
Per molto tempo il dibattito
pedagogico ha messo in discussione – sul piano antinomico – questi due assunti.
Vi è chi ha puntato tutto sull'attenzione al bambino, correndo il rischio di
non riuscire ad andare avanti. La scuola dell'infanzia è diventata in qualche
caso un luogo di attesa in cui, in nome del rispetto che gli si doveva, al
bambino non venivano formulate proposte e fatte richieste. In nome del
benessere del bambino, si è vista come pericolosa anche l'idea di raggiungere
qualche traguardo.
Vi è chi ha condannato il piano
dei contenuti di attività, cercando un “senso” pedagogico che andasse al di là,
e considerando i contenuti indifferenti rispetto allo sviluppo.
Tutto questo sulla base del
timore di costruire un bambino solamente “sociale” rispetto ad un necessario
sistema di “valori” che dovevano trascendere le singole esperienze di
apprendimento. Il bambino, proiettato nell'attività, corre il rischio di
diventare essenzialmente un prodotto sociale. Su questa scia non sono mancati
gli inni alla spontaneità e le critiche ad un presunto eccesso di richieste ai
bambini.
Questi problemi sembrano essere
ben chiari a Bruno Ciari.
“Le nuove tecniche didattiche”
affrontano sistematicamente entrambi questi aspetti e, da questo punto di
vista, non sembrano avere perso la loro attualità.
La scuola ha il compito
irrinunciabile di fornire a tutti i bambini degli strumenti culturali come
condizione indispensabile di sviluppo e di realizzazione di sé (e, se vogliamo,
anche di realizzazione della persona): nulla più della cultura può favorire tale
crescita. E, per fare questo, occorre un'attenzione individualizzata a tutti i
bambini per garantire ad ognuno tale possibilità di crescere.
Ciari più di altri sembra
teorizzare il primato e l'autonomia della didattica sulla formazione del
bambino.
Non va poi dimenticata
l'organizzazione che costantemente emerge fra le righe di questo testo.
È sufficiente rileggere le pagine
dedicate al sorgere della comunità scolastica, al suo progressivo sviluppo,
all'organizzazione del lavoro, alle forme di articolazione cooperativa, alle
diverse forme di autovalutazione.
Sono pagine che conservano ancora
intatta una loro freschezza e una loro indubbia validità.
Quale didattica nel nido?
Ritmi individuali e attività
strutturate, risorse e obiettivi, agire strategico e verifiche
Bambini, ottobre 1991
di Aldo Fortunati, Pedagogista,
San Miniato (Pi) e Gloria Tognetti, Educatrice asilo nido, Empoli (Fi)
Testo dell'intervento presentato
in occasione del II interscambio fra
Italia e Spagna sui temi dell'infanzia e dell'educazione da 0 a 6 anni. Barcellona, 8-12
luglio 1991
Introduzione al problema
Questo intervento vuole proporre
una serie di riflessioni sul tema della programmazione nel nido, pensando, in
particolare, a quali siano le relazioni di reciproca integrazione o di
differenza fra il complesso delle situazioni che coinvolgono bambini e adulti
nel corso di una giornata al nido e quelle situazioni di gioco e attività
maggiormente organizzate e strutturate, che si realizzano al centro del tempo
della mattina.
Alcune discutibili tendenze in
atto nel nostro paese enfatizzano il tema della programmazione anche nel nido,
sottolineando la sua necessità per uscire dall'occasionalità delle proposte e
attribuire senso "scientifico" all'agire dell'educatore; a questo
punto di vista consegue spesso un'enfasi sugli aspetti cognitivi, sui momenti
di verifica, sulle situazioni organizzate, su un ruolo istruttivo da parte
dell'adulto.
Il quesito riguarda, in questo
caso, se l'accentuazione della didattica e in particolare di una didattica con
tempi e modi decisi in gran parte dall'adulto, sia integrabile all'interno di
una corretta visione del bambino e delle qualità e caratteristiche di un
contesto come il nido o se, invece, non produca distorsioni e snaturamenti, sia
del bambino che del nido, verso immagini e modi di educare che fanno parte - e
non sempre nel bene - dei contesti scolastici.
Il nostro dubbio, che
esplicitiamo da subito, riguarda il fatto che direzioni di prospettiva di
questo genere, fondate sul condivisibile auspicio che il nido acquisisca un
abito pedagogico forte, rischiano seriamente di raggiungere mete ben diverse,
come, per esempio, uno schiacciamento e appiattimento dei modelli in una
direzione anticipazionista, del tutto irrispettosa non tanto della magia di un
mondo infantile tutto fantasia e spontaneità, quanto delle caratteristiche dei
bambini piccoli e dei processi di esperienza e conoscenza: l'abito pedagogico
del nido non può essere un “travestimento”, ma va fatto - come è accaduto in
molte significative realtà - su misura.
Dal progetto a pezzi al progetto
come rete
La tesi che qui sosteniamo è
quello del nido come ecologia complessa e del progetto educativo come insieme
articolato di situazioni, connesse tra loro, all'interno delle qualità sia
rintracciabile una sorta di coerenza rispetto all'idea di bambino al quale si
fa riferimento, a quali processi educativi si intende attivare e sostenere, a
quale educatore si intende essere ecc.
Uno sguardo retrospettivo
sull'esperienza di molti educatori conduce a rilevare spesso, nel passato,
l'assenza di coerenza rispetto alle diverse situazioni previste
dall'organizzazione del nido: ciò che emerge è una quotidianità poco curata
rispetto all'organizzazione dei momenti di gioco libero e di routines ed una
eccessiva tensione rispetto alla organizzazione di attività strutturate, come
se la qualità ed il significato del nido come contesto educativo passasse
soltanto attraverso questi momenti, dove finalmente si parla di
"didattica", di insegnamento, di verifiche ecc. (interessante
riflettere su questi tipi di rappresentazione del bambino piccolo e del fatto
educativo, che sembrano dipendere, si diceva, dal desiderio di emanciparsi da
una immagine custodialistica del nido e del bambino come esclusivamente bisognoso
di cure e affetti, ma che sembrano anche, per dirla con un proverbio
consonante, "buttare via anche il
bambino con l'acqua
sporca").
È andata maturando, nel tempo, la
consapevolezza che la qualità dell'esperienza che il nido offre al bambino
dipende dalla adeguatezza delle diverse situazioni che, nel corso della
giornata, si intrecciano ed all'interno delle quali prende forma e si struttura
l'esperienza soggettiva di ogni bambino e del gruppo (bambini ed adulti).
L'obiettivo del lavoro diventa
quello di costruire un progetto all'interno del quale si propongono ai bambini
contesti governabili e riconoscibili nel loro diverso significato, dove si
cerca di sostenere il benessere psico-fisico ed intellettuale del bambino, dove
la curiosità ed il desiderio di esplorazione siano incoraggiate e rispettate,
in ogni momento.
Così è possibile ricomporre
quella scissione tra situazioni semplicemente educative e situazioni
didattiche, tanto cara a chi, enfatizzando la verificabilità dello sviluppo
solo in situazioni strutturate, finisce per considerare come sfondo
indeterminato, perché non quantificabile, il semplice agire quotidiano (quello
meno formalizzato e formalizzabile), in cui, invece e a ben guardare,
apprendimenti e saperi trovano la loro genesi e radice e costituiscono fenomeni
largamente pervasivi.
Il lavoro congiunto fatto
rispetto all'organizzazione degli spazi e dei gruppi, all'articolazione delle
esperienze, la riflessione sul ruolo giocato dall'adulto nelle diverse
situazioni, l'osservazione sistematica del comportamento dei bambini e delle
stesse situazioni, vanno in questa direzione.
Questo percorso – come lavoro di
indagine e ricerca – suggerisce quali prerequisiti di un'adeguata progettazione
didattica l'integrazione e la continuità rispetto al complessivo progetto
educativo. Se l'idea di bambino a cui facciamo riferimento è quella di bambino
competente, attivo nella costruzione dei suoi processi di conoscenza, se ci
riconosciamo nella definizione di "pedagogia come scienza rispettosa
dell'identità e dell'autonomia dei sistemi in gioco" e nell'idea di adulto
come "organizzatore di vincoli che aprono possibilità all'agire strategico
del bambino", allora queste convinzioni e immagini di fondo devono essere
rintracciabili sia all'interno della progettazione educativa che della
progettazione didattica.
Organizzare gli spazi e i tempi
della giornata, avendo in mente tutto questo, può significare disegnare
un'ambiente e un sistema reticolare di esperienze possibili in cui il bambino
possa muoversi bene, possa avere accesso ad una serie di oggetti in maniera
autonoma, possa trovare spazi adeguati al gioco individuale o di piccolo
gruppo, facendo si che le esperienze trovino un senso diluito nella giornata e,
nella stessa giornata e nel tempo, un prezioso senso di continuità.
Quale didattica nel nido?
E per la progettazione didattica,
quali indicazioni ci vengono da queste idee o convinzioni? Intanto, le
occasioni della didattica intelligente (negoziata e costruita col bambino) -
devono essere incluse nel reticolo di cui si diceva, non possono essere
separate e opposte al resto, anche se naturalmente sono diverse, perché più
raccolte di altre e con una presenza più attiva dell'adulto.
In secondo luogo, un progetto
didattico in quanto tale non può essere completamente predeterminato ma deve
prevedere un margine di flessibilità che permetta il suo rimodellamento in base
ai feed-backs provenienti dall'esperienza, un progressivo riaggiustamento
collegato a quanto i bambini, agendo al suo interno, ci fanno capire rispetto
alla adeguatezza della proposta.
L'idea di osservatore interno al
sistema e quella di una relazione circolare tra progettare/fare/osservare sono
di fondamentale importanza a questo proposito. Ad esempio, predisporre una
situazione in cui la proposta è la manipolazione di materiali in uno spazio
troppo piccolo, o con materiali insufficienti per il numero di bambini, con la
presenza di un bambino che quella mattina è molto triste e piange per tutta la
durata dell'esperienza, può pregiudicare il livello ed i tempi di attenzione da
parte dei bambini: la valutazione può essere semplicemente che i bambini non
hanno mostrato interesse oppure può essere una riflessione sulla adeguatezza
della proposta.
La scelta è dunque quella di
"modelli di intervento non rigidi ma aperti al cambiamento, che assumono
la provvisorietà come fondamentale equilibrio, dove lo spazio attribuito
all'incertezza ed all'errore non ha nulla a che vedere con lo spazio concesso
all'approssimazione ed allo spontaneismo".
La proposta di situazioni chiuse,
di percorsi completamente predeterminati e prevedibili dove si chiede al
bambino di mostrarsi adeguato e competente rispetto ad una risposta attesa
dall'adulto, come i tanti abbinamenti di forme, colori ecc. – dove ciò che alla fine ha valore e
interessa non sembrano i processi messi in gioco ma il risultato giusto o
sbagliato – male si accordano con l'idea di bambino ricco e attivo di cui
parliamo e non possono certo esaurire il discorso sulla progettualità
didattica.
Il concetto di flessibilità del
progetto e quello di situazioni aperte al "possibile" rimanda alla
riflessione sul ruolo dell'adulto: in questa prospettiva, l'educatore si
definisce come colui che organizza gli scenari in base alle ipotesi che ha
elaborato ed al tipo di esperienza che intende proporre al bambino; a questo
ruolo sembra calzare a pennello l'imperativo di Von Foerster: “agisci in
maniera tale da aumentare il numero delle scelte”.
Se si riesce ad operare una
ristrutturazione del ruolo dell'educatore immaginandolo non "come causa
del comportamento e dello sviluppo del bambino" ma piuttosto come regista
che, dall'interno di un progetto, riesce ad introdurre le perturbazioni
propizie ad innescare i processi di scoperta, costruzione e conoscenza che sono
propri del bambino, regolati in gran parte dall'interno nelle modalità e nei
tempi, questo equivale ad un importante cambiamento di punto di vista.
È necessario approppriarsi
dell'idea che il ruolo "vincente", come educatori, non è quello del
potere di chi già sa e insegna a chi ancora non sa, ma piuttosto quello di
essere capaci di predisporre situazioni in cui ci sia lo spazio per la continua
“negoziazione tra punti di vista diversi – quello del bambino e quello
dell'adulto – orientata verso la costruzione di punti di vista nuovi”. Allora,
quando si predispone una situazione; od un progetto didattico, tutto si gioca
nella capacità da parte dell'adulto di dare spazio al possibile ed
all'imprevedibile, al diritto di provare e riprovare, di sbagliare e imparare
dall'errore, di uscire dalle regole pensate dall'adulto, costruendone di nuove
insieme a lui, perché “la validità del progetto risiede non nella risposta a
obiettivi predeterminati, ma nella costruzione di quadri concettuali e di
assetti organizzativi provvisori, frutto dell'agire strategico congiunto dei
bambini e degli adulti”.
Una riflessione importante,
durante questo percorso, può essere quella sui tempi che noi diamo ai bambini
per esplorare e padroneggiare certe situazioni progetto: occorre rendersi conto
di quanto sia più articolato e complesso il percorso che i bambini fanno
rispetto a quello che abbiamo in mente come adulti “padroni
e conoscitori della realtà”.
Questo loro percorso ha bisogno
di tempi adeguati, diversi da bambino a bambino; la esplorazione degli oggetti
attraverso la manipolazione, il confronto tra oggetti diversi, il mettere
insieme oggetti per qualche motivo simili, la combinazione di oggetti e
materiali verso forme nuove e creative: le informazioni che i bambini
acquisiscono ed organizzano, attraverso i loro processi mentali, sono infinite
e talvolta siamo troppo determinati ad avere un prodotto che ci dica “quanto”
il bambino sa per riconoscere dignità e valore alle complesse strategie di
costruzione dell'esperienza e delle conoscenze.
Un'ultima considerazione riguarda
il bisogno, che consegue a questo tipo di concezione, di uscire dall'idea della
valutazione come misurazione di competenze e di risultati per approdare
all'idea della valutazione come strumento che ci dice, innanzitutto, se la
situazione proposta è adeguata nei tempi, negli spazi, nel numero dei bambini
coinvolti, nel ruolo tenuto dall'adulto; da ciò dipende anche la progressiva
capacità di osservare non tanto e non solo il bambino, ma piuttosto la
situazione nella quale siamo inclusi insieme a lui e, infine, l'attenzione ad
includere le nostre notazioni sulle competenze possedute dal bambino nella
descrizione della storia della sua esperienza, intesa come “processo in
situazione”, in cui interessi, motivazioni, stili e strategie si intrecciano
con le risorse umane e materiali circostanti per costruire l'evento educativo.
SENZA TITOLO...
ovvero “gioco per un dito che
esplora il colo-re dentro al piatto”
Pillole, Bambini maggio 1999
Giacomo fa passare la farina
attraverso un barattolo forato e la guarda cadere giù, poi mette la mano sotto
al flusso della farina, e si volta sorridente: “Senti, fa il solletico!”. Prende
un colino e comincia a scuotere la farina con una mano, lasciando sotto
quell'altra, fino a quando non è tutta coperta: “Guarda dada, non c'è più!”.
Vicino a Giacomo, Marta rimesta energicamente con un cucchiaio la farina dentro
a una ciotola, con movimenti circolari che producono un suono strisciato e
regolare. Sta molto attenta a non fare uscire la farina dalla ciotola, e ci
riesce fino a quando, voltandosi verso Giacomo, fa cadere uno spruzzo di farina
sul tavolo. Allora Marta riprende con maggiore energia il suo ritmo: il
cucchiaio si muove sempre più velocemente, sparpagliando la farina sul tavolo,
con evidente soddisfazione della bambina che sottolinea l'azione con la voce:
“Via, via, viaaa!”.
“A loro piace molto giocare con i
travasi – commenta l'insegnante – è un'attività che proponiamo spesso ai
bambini di tre anni”. Travasi? Osservando i bambini non ho notato la minima
traccia di questa operazione: ho visto bambini immersi nel piacere di
percezioni tattili, visive, sonore, interessati a scoprire il legame tra il
proprio gesto e il comportamento della farina, ma non ho visto alcuna attività
di travaso, di cui, tra l'altro, non ho sentito la mancanza, vista la ricchezza
dell'attività dei bambini. Mi colpisce però il fatto che l'edu-catrice usi questa
definizione, perché mi sembra che in questo caso la parola travaso non serva a
descrivere il gioco dei bambini che abbiamo appena osservato, ma addirittura ci
allontani dalla possibilità di comprenderne il significato. È la stessa
sensazione di perplessità che ho provato in un nido, nei confronti della
domanda “Non hai voglia di dipingere oggi?” rivolta a un bambino di poco più di
due anni, che nell'atelier di pittura si attardava a paciugare con il dito nel
piattino del colore, invece che trasportarlo sul foglio. La consuetudine
didattica ci porta a utilizzare definizioni standard per indicare le attività
che proponiamo ai bambini, e forse ci spinge a dimenticare che sarà il modo in
cui ciascuno di loro metterà in atto i propri desideri e le proprie competenze
nella situazione di gioco proposta, a indicare il vero titolo della loro
attività.
In questa logica “gioco per un
dito che esplora il colore dentro al piatto” definisce un'attività che può
sicuramente essere assimilata alla pittura, ma che ha motivazioni e
caratteristiche particolari, che devono essere riconosciute e rispettate (e non
poste in conflitto con l'attività prevista); così come “movimenti per far
cadere la farina e sentirla con le mani e con le orecchie” delinea una
situazione esplorativa che forse è propedeutica al travaso, ma che può anche
semplicemente collegarsi a interessi tattili, sonori e gestuali auto-nomi ed
ugualmente importanti. Non è solo una banale questione verbale: se i titoli
orientano il nostro pensiero e le nostre aspettative, sarà inevitabile che
condizionino anche l'allestimento dello spazio e dei materiali, e soprattutto
il nostro atteggiamento nei confronti delle risposte infantili. E i titoli
standard, sintetici e spesso radicali in pratiche didattiche un po' ingessate,
ci portano a trovare nell'attività soprattutto ciò che è già previsto e
sperimentato, trascurando gli apporti originali dei singoli bambini.
Perché non provare invece a
rinunciare ai titoli, almeno in partenza, per arrivare soltanto in un secondo
momento a definire l'attività dei bambini, sulla base di ciò che abbiamo
osservato? In questa logica diventa anche più facile individuare gli elementi
da variare per rilanciare il gioco, senza snaturarlo, ma rendendolo più
interessante, perché in continuità e in allargamento con quanto i bambini
stanno realmente facendo.
Effe
Contorni da rispettare
Pillole, ottobre 1999
Scontornare è una parola ancora
assente in molti vocabolari della lingua italiana, ma molto familiare a chi
lavora in campo grafico: indica l'azione di isolare una particolare figura dal
contesto di provenienza, ritagliandola appunto lungo i contorni, per poterla
ricollocare su altri sfondi, in altre posizioni, vicino ad altre figure.
Nella scuola materna e al nido
questa pratica è spesso utilizzata per evidenziare e valorizzare qualche
particolare, o creare composizioni collettive. In questi casi l'insegnante
isola, tra i tanti segni e disegni dei bambini, quelli più interessanti e
significativi (ovviamente rispetto ai propri canoni grafici) e li mette in
evidenza, in un nuovo contesto grafico, di solito anch'esso ideato e realizzato
da un adulto. È dunque importante ricordare che questo modo di
"confezionare" le produzioni grafiche infantili, ormai molto
abituale, è la risultante di due intenzionalità: quella del bambino, ma anche
quella dell'adulto. E se è oggettivamente vero che i disegni così trattati
vengono letti più facilmente e con maggiore piacere dai non addetti ai lavori
(perché eliminando uno sfondo spesso disordinato con uno più pulito e curando
il rapporto figura/sfondo anche rispetto al contrasto di colore si ottengono
“oggetti culturali” decisamente più vicini all'estetica dominante), è anche
vero che l'operazione non è del tutto esente da qualche rischio pedagogico.
L'abitudine al prodotto
confezionato, ad esempio, può portare i genitori a sopravvalutare le effettive
capacità dei loro bambini, attribuendo anche ai più piccoli intenzionalità
rappresentativa e capacità di esecuzione ancora molto lontane. Mi è già
capitato di rassicurare genitori che si sentivano incapaci, solo perché non
riuscivano a ottenere a casa gli stessi disegni che vedevano al nido:
ovviamente le prestazioni dei bambini erano le stesse, ma mancava la
sostanziosa opera di confezionamento dell'adulto...
L'abitudine a ritrovare i propri
disegni ritagliati e ricomposti, può inoltre diventare una sorta di educazione
allo zapping che l'adulto inconsapevolmente propone ai bambini, come portavoce
di una cultura che tende alla stessa frammentazione e alla velocità che magari
viene avversata a parole.
Infine, anche questa tecnica,
come tutte, rischia di prendere la mano a chi la utilizza: ritagliando un
disegno si possono eliminare segni che si ritengono sbagliati o inutili,
ricollocando le figure in un nuovo contesto si possono correggere errori di
posizione, di scala, e a poco a poco si modifica non solo l'effetto percettivo,
ma anche la qualità dell'elaborato grafico stesso. Conseguentemente, guardando
il risultato finale diventa impossibile capire se siamo davanti a un prodotto
infantile confezionato da
un adulto o a un prodotto adulto
che utilizza un elaborato infantile.
E tra le due cose c'è una bella
differenza, almeno dal punto di vista pedagogico: proprio parlando di contorni,
Bateson ricordava a se stesso e alla figlia l'importanza di continuare a vedere
la differenza tra una cosa e un'altra, e non scambiare la confusione con la
tolleranza.
La riflessione sul tipo di
contorni che vogliamo seguire e rispettare si allarga dunque dal disegno al
modello di bambino adultizzato, "scontornato", levigato,
decontestualizzato che rischiamo di creare, sovrapponendo i nostri criteri
adulti a quelli dei bambini che dobbiamo cercare di ascoltare.
Effe
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