Proseguiamo nella pubblicazione degli editoriali di Loris
Malaguzzi, aggiungendo un articolo di approfondimento e commento redatto da
Paola Cagliari, Pedagogista, Direttore Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia del Comune di Reggio Emilia.
Aggiungiamo anche un articolo di Sergio Neri,
pubblicato nel 1981 sulla rivista 0-6, articolo da cui Malaguzzi prendeva
spunto per redigere il suo intervento.
Buona lettura!
Se l’educazione è un bene comune
La relazione pubblico/privato nella gestione dei servizi 0/6
Paola Cagliari
Pedagogista, Direttore Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia,
Comune di Reggio Emilia
Pubblichiamo, in questo ultimo
numero dell’annata, un editoriale di Malaguzzi del 1981 che prendeva le mosse
da un articolo di Sergio Neri, pubblicato il mese precedente su Zerosei, per
svolgere un tema ancora oggi molto attuale: la relazione tra pubblico e privato
nella gestione dei nidi e delle scuole dell’infanzia. L’editoriale di Sergio
Neri metteva in luce alcune questioni drammaticamente attuali:
1. il dibattito che coinvolge il
nido e la scuola dell’infanzia non si genera mai da una ricerca sull’identità
di questi servizi, ma sempre da cause esterne quali le politiche del lavoro o
la riforma di altri livelli scolastici;
2. ancora oggi, in molte parti
d’Italia, non siamo riusciti a superare la logica del “buon servizio”. Sergio
Neri auspicava “una differente collocazione sociale dell’infanzia” che la
ponesse come soggetto politico e “il riconoscimento del patrimonio di
partecipazione, di scienza, di professionalità, di ricerca di base” che
l’esperienza comunale aveva saputo produrre. Obiettivi che sono ancora da
raggiungere. I fatti di questi ultimi anni ne sono una dimostrazione. Il calo
delle risorse finanziarie dei Comuni e la crisi economica che sta mettendo in
difficoltà le giovani famiglie stanno alimentando da una parte la dismissione
della gestione diretta dei servizi educativi da parte dei Comuni, dall’altra un
calo della domanda ai Nidi e alle Scuole dell’infanzia in favore di soluzioni
private e privatistiche. Certamente la crisi e l’aumento della disoccupazione
stanno creando nuove povertà,
ma se tra i “tagli” che le
famiglie scelgono di operare per far quadrare il bilancio i primi sono il nido
e la scuola dell’infanzia significa che la cultura dell’infanzia, a cui
lavorano tanti cittadini da cinquant’anni con impegno politico e professionale,
non è riuscita a consolidarsi nella cultura del nostro Paese. Non siamo
riusciti a consolidare un’idea di educazione bene comune, diritto dei bambini
fin dalla nascita e responsabilità della società; non siamo riusciti a
consolidare un’idea di bambino ricco di potenzialità che necessitano, per
essere sviluppate, di contesti educativi di qualità e di collettività. Un’idea
che numerose ricerche suffragano con evidenze empiriche.
Questo è un grave problema per la
società italiana che rischia di perdere, con i nidi e le scuole dell’infanzia,
che pure sono presenti in modo disomogeneo nel Paese, un presidio importante
per l’integrazione e la partecipazione. Proprio nel momento in cui il lavoro
non c’è o è precario e saltuario, il nido e la scuola dei bambini diventa per i
genitori il luogo della relazione, della partecipazione, della ricollocazione
del proprio ruolo nel sociale. I servizi educativi sono infatti nodi di
connessione importanti tra gli individui e la società e sono una componente
essenziale del benessere e del grado di civiltà di una società. Sergio Neri
parlava di un “progetto territoriale
complessivo in grado di assicurare coerenza alle esperienze quotidiane”, un
tema ripreso e sviluppato da Loris Malaguzzi nel suo editoriale. In alcune
parti d’Italia, soprattutto del Nord Italia, da almeno due decenni il Sistema
Pubblico Integrato è una realtà. Il Sistema Pubblico Integrato vincola,
all’interno di norme e riferimenti condivisi, differenti soggetti gestori a
offrire un servizio pubblico, quindi inclusivo, accessibile e laico, alle
famiglie e ai bambini. Fare sistema non signifi ca solo incontrarsi ma
riconoscere un ruolo di co-progettazione a tutti gli enti gestori, in tavoli di
confronto dove il Comune può avere un ruolo forte, se sul piano qualitativo, il
progetto pedagogico e gestionale, che ha costruito gestendo direttamente un
numero significativo di servizi, è autorevole. Il Comune, in quanto
direttamente vicino ai cittadini, è l’Ente maggiormente capace di interpretare,
attraverso pratiche di partecipazione attiva, il ruolo dei servizi educativi
sul proprio territorio, valorizzando le competenze e interpretando i diritti e
le istanze culturali e sociali. Il superamento della contrapposizione
ideologica pubblico-privato è stata una tra le conquiste di questi decenni.
Questo non significa non tenere le distinzioni di identità, le radici in cui
affondano e prendono forma le esperienze, ma realizzare un dialogo rispettoso e
l’individuazione dei valori e dei temi di fondo: le condizioni per garantire la
qualità dell’esperienza ai bambini e le famiglie, una progettazione condivisa
del sistema educativo cittadino, politiche per l’accesso coerenti all’interno
del sistema (criteri, rette, orari...), la condivisione dell’idea che il
diritto all’educazione dei bambini è una responsabilità per la comunità cittadina. Il nodo vero
rimane però comunque il governo pubblico
delle politiche che costituisca la cornice dentro a cui le singole
identità possono esprimersi nel dialogo. Pensiamo che il Sistema Pubblico
Integrato, così disegnato, si collochi nel secondo scenario che Malaguzzi
indica e auspica, nell’editoriale che pubblichiamo, come alternativo alle
pedagogie separate e a scuole chiuse e afone che, in virtù della difesa della
possibilità di scelta degli adulti, limitano le possibilità di scelta dei
bambini. C’è una diffusa smemoratezza nel nostro Paese che fa decadere dai
dibattiti e dalle proposte di legge sul sistema 0/6 anni la parola pubblico,
per cui il sistema viene designato solo come integrato. Ma la perdita di questa
designazione è una perdita sul piano politico gravissima. Le politiche,
attraverso il ruolo dei Comuni, gestori diretti di servizi e coordinatori del
sistema, devono essere e rimanere pubbliche e integrare enti gestori pubblici e
privati all’interno di una visione di educazione bene comune, di regole
condivise e di un’idea laica di educazione dove le differenze entrano in
dialogo e si confrontano.
L’essere pubblico non va
identificato con la natura sociale del soggetto che eroga il servizio, ma
sull’inclusività, accessibilità, apertura e dialogo con il territorio,
partecipazione al sistema, accettazione di vincoli di reciprocità in una ottica di sussidiarietà.
C’è una differenza sostanziale
tra sussidiarietà e privatizzazione dei servizi. La sussidiarietà è prevista
dall’art 118 della Costituzione che
afferma “Stato,Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono
l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di
attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarità”.
Tale principio implica che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni
necessarie per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire
liberamente nello svolgimento della loro attività. La privatizzazione dei
servizi è la loro cessione senza condizioni a soggetti che fanno questo per
ritorno economico in una logica di mercato.
Nell’ambito del 3/6 lo Stato non
offre il 100% di scolarità, né ha predisposto piani di finanziamento adeguati a
raggiungere questo obiettivo. Non dare le condizioni per il mantenimento dei
servizi esistenti vuol dire di fatto non consentire ai bambini di avere il
diritto alla scuola (oltre al fatto che ogni struttura chiusa è una struttura
che non riaprirà più). L’invito è di produrre un dibattito sul tema
pubblico/privato non ideologico e capace di includere, qualificare e
valorizzare le esperienze esistenti con l’obiettivo di dare a tutti i bambini,
come scrive Loris Malaguzzi, “la scuola che si meritano”.
Per questo oggi è importante che
il Parlamento approvi il prima possibile una legge 0/6 che:
- all’interno di una visione e un
impianto organico del sistema di istruzione e formazione da 0 a 99 anni, riconosca
unitarietà e pari dignità a tutti i servizi educativi e scolastici dal nido
fino alla formazione permanente;
- riconosca ai bambini da 0 a 3 anni l’esigibilità del
diritto all’educazione in collettività. Questo può essere attuato togliendo il
nido d’infanzia dal novero dei servizi a domanda individuale, per inserirlo a
pieno titolo nel sistema di istruzione e formazione aggiungendo alla sua
denominazione il termine “educativo”;
- proponga i servizi educativi
0/6 come rappresentanti delle politiche proprie per l’infanzia, sottraendole
alla subordinazione dalle politiche del lavoro e della famiglia;
- sancisca il ruolo centrale
degli enti locali nella governance del sistema pubblico integrato, quali
gestori dei servizi educativi per la prima infanzia, garanti della qualità dei
servizi stessi, siano essi pubblici, convenzionati o privati;
- ponga le basi giuridiche perché
tutti gli enti gestori abbiano il riconoscimento di tale ruolo e le condizioni
opportune e necessarie per svolgerlo, con un adeguato piano di finanziamenti;
- assicuri la qualità del
servizio ponendo vincoli quali la formazione in servizio, la collegialità del
lavoro, la compresenza di più figure col gruppo dei bambini, il coordinamento
pedagogico;
- assumendo la centralità dei
diritti dei bambini, proponga la conciliazione tra questi ed i diritti del
genitore - lavoratore, chiedendo al mondo del lavoro di assumersi la sua parte
in queste politiche;
- riconosca il diritto dei
genitori, individuati come portatori di saperi, di essere parte attiva della
costruzione del progetto educativo che coinvolge i loro fi gli e la
collettività, attraverso la partecipazione sociale. Per tutto questo chiediamo
il sostegno di tutti coloro che credono che i servizi educativi sono una
componente importante del benessere e del grado di civiltà di una società.
È possibile firmare per sostenere
la rapida approvazione di una legge 0/6 andando sul sito
www.grupponidiinfanzia.it
TUTTO PIÙ DIFFICILE SE LO STATO
NON C’È
di Loris Malaguzzi
L’incontro tra il ministero della
Pubblica Istruzione, regioni, comuni, sindacati confederali (da cui prendeva le mosse l’editoriale di
Sergio Neri sull’ultimo numero della rivista) attorno alla 444 non si è fatto. E
a tutt’oggi niente indica che si farà.
Con tutta franchezza, almeno da
parte nostra, diciamo che non ne siamo dispiaciuti. Anzi. Le procedure e i
documenti che accompagnavano il progetto erano (e anche in modo contrapposto)
vistosamente al di sotto dell’importanza del tema e della chiarezza necessaria
e lasciavano trasparire non poche ingenuità; compresa quella di accreditare che
i grossi problemi legati comunque a sostanziali modifiche della 444, potessero
affrontarsi e condursi a soluzioni accettabili e positive al di fuori di una
provvida consultazione e di quelle sperimentazioni, non solo cautelative,
previste dal piano di riforma della secondaria; e al di fuori di un confronto
delle forze politiche e di un quadro di riferimento capace di dare finalmente
una rigorosa identità culturale alla scuola dei bambini da 3 ai 6 anni (se
ancora si arriva in tempo), contestualmente ai temi della scuola e
dell’educazione di base. Il rischio di assistere ancora al vezzo
dell’aggiustamento, del colpetto volpino,
delle grandi bonifiche
assistenziali (sostanzialmente del rinvio
sistematico che è quello che da anni la politica scolastica ci propina)
non è scongiurato. Le impressioni e gli inviti di Neri puntavano essenzialmente
a dare spessore e centralità alle molte e decisive questioni connesse con la
444 che specie quando divengono materia di confronto e di scelte, esigono di
essere portate al massimo della chiarezza e della consapevolezza: non per una o
alcune delle parti ma per tutte le parti che vi intervengono.
Le questioni che si annodano alla 444, alla
legge che nel 1968 ha
sancito il dovere dello Stato di istituire la sua scuola materna e di
provvedere con responsabilità dirette all’educazione dei bambini da 3 a 6 anni, sono molte. E certo
c’è anche quella della scuola materna privata, del suo posto in una società
pluralista, dei suoi rapporti con lo Stato e le sue leggi: un problema che si
richiama a realtà e a principi e che chiede adeguamenti legislativi. Una
materia che ha complicazioni storiche e politiche ma che accampa ragioni e interpretazioni
che chiedono legittimamente di misurarsi sul terreno dell’organizzazione dello
Stato e dei suoi servizi, diretti e indiretti, rivolti alla società civile.
Il confronto attorno a questi
problemi, mantenuto vivo e teso da parte delle forze di ispirazione cattolica,
ha tentato in questi anni la via periferica delle convenzioni tra scuole
private e enti territoriali e decentrati dello Stato. Un’operazione che cercava
soprattutto riconoscimenti e che in parte ha raggiunto dei risultati, oggi non
più bastevoli: ma che ha lasciato aperti molti interrogativi e molte ambiguità.
In realtà la questione nei suoi
termini essenziali e ultimi è ancora in alto mare. Non sono chiare molte cose:
quale è (o dovrebbe essere) lo Stato (i suoi poteri, i suoi doveri, i suoi
rapporti con i gruppi economici privati, l’informazione, la scienza, la cultura
ecc.) con cui la
scuola privata chiede un nuovo
rapporto? E quale il ruolo delle amministrazioni pubbliche territoriali che
sono parte integrante dello Stato? Quale il ruolo pubblico della scuola
privata, i termini della sua soggettività etica e culturale e i termini della
sua effettiva idoneità a rispondere alla domanda oggettiva, differenziata, dei
cittadini e del territorio e gli ambiti riconoscibili per una sua visualizzazione
all’interno di una politica di piano e di scelte programmate? Quale la funzione
che si accredita allo Stato nei confronti della scuola statale pubblica e nei
confronti della collettività nazionale a garanzia del diritto fondamentale dei
cittadini, di tutti i cittadini, a godere di un’educazione laica che assicura
la cultura della ricerca e del confronto e la libera e permanente opzionalità
di coscienza?
Scorrendo via via i discorsi
della stampa che patrocina gli interessi della scuola privata, è facile
annotare l’insistere di posizioni antistatalistiche e antistituzionali, di
accuse contro lo Stato che discrimina e perseguita, di denunce contro
l’incompetenza della politica e dei politici: cui si ama spesso contrapporre
purezze ed estraneità più che dubbie, radicalismi demagogici, forme evanescenti
e ingenue di contro organizzazione sociale.
Giusto secondo quello che alcuni
definiscono il vecchio catastrofismo cattolico o, con interpretazione più
misurata, la storica e ricorrente sfiducia dei cattolici nei confronti delle
pubbliche istituzioni. Dove, ci sia concesso dire, è incombente il rischio di
metodologie giusnaturalistiche che possono decomporre, sbriciolare il corpo
sociale in autonomie effimere e bugiarde con diritti inalienabili da parte di ognuno
o del gruppo, da non negoziare, né politicamente né eticamente, all’interno
della realtà più composita (e classista) della realtà sociale. In questa filosofia la concezione di una
pedagogia separata e di una scuola chiusa, afona e triste nella sua pur
perfetta sintonia di voci, vocazioni e libere scelte fatte da adulti per meno
libere scelte dei bambini, è in corretta coerenza; fino al punto che i genitori
dei bambini sono invocati ad essere i naturali guardiani dell’apartheid. “La
partecipazione dei genitori – si scrive – non dovrà essere vista come
aggiuntiva ma come sostitutiva di quella dell’ente pubblico e dello Stato”.
Accanto a discorsi di questo
tipo, visibilmente faziosi e ingenerosi, per fortuna ce ne sono altri. Che, seppure
di minoranza, riconoscono il ruolo primario “della programmazione della
pubblica amministrazione”, sottolineano l’utile sociale derivante “dalla
collaborazione dell’istituzione privata al raggiungimento di obiettivi che la
programmazione pubblica propone”, inserendosi in una feconda strategia “di
integrazione”. Qui la concezione pedagogica sottesa è di altra marca. Ed è
chiaro che è solo questo secondo discorso che ne sollecita e ne genera altri.
Ma la grossa possibile anomalia
in una questione che sarà risolta bene solo se tutti anteporranno ai discorsi di
parte, il discorso che mira a dare ai bambini la scuola che si meritano (e che ancora
non hanno) accettando il merito della chiarezza, è che possa essere lo Stato
(la storia accumulata dai governi di questo Stato) a sottrarsi o a mancare in
parte al ruolo e ai compiti che gli sono prescritti, proprio in sede di
trattativa e di confronto. Non per le ragioni addotte con irriconoscenza dalla
stampa patrocinante che abbiamo più su detto (e che farebbe bene a ripercorrere
con la memoria la storia dei favori e delle alleanze ricevuti) ma per la sua
paradossale ventennale inintenzionalità (giusto dai tempi del ministro Gonella
appena si profilò politicamente l’ipotesi della nascita della scuola materna
pubblica) a tenere in pugno il suo doveroso ruolo primario nella costruzione della
sua scuola e della scuola più in generale del bambino.
Avrebbe potuto essere
un’eccezionale innovativa esperienza storica. Solo lo Stato non avesse piegato
le ginocchia e avesse voluto, contro nessuno, innestare le lezioni gloriose del
passato (fatti e intuizioni che all’estero ci invidiano) in quelle che la
vicenda contemporanea (della scuola della cultura, della politica) andava
chiedendo.
L’amico Neri ha ragione quando
richiama questo problema. E noi invitiamo a riflettere quanto abbiano bloccato
la storia – da quella culturale a quella di costume – le risorse e le occasioni
buttate da questa scuola materna statale (da cui ancora sono esclusi 600.000
bambini) nata e tenuta in vita da un amore solo complementare e sussidiario.
Quello che ancora gli esprime lo Stato.
Non è solo un “buon
servizio”
Sergio Neri
Attorno
al futuro della scuola materna – statale, comunale e privata – le discussioni
si stanno facendo ogni giorno più fitte. Ben vengano, verrebbe fatto di dire,
se esse non fossero per lo più volte al domani, in uno sforzo di trascuratezza
del presente o anche del passato più vicino, meritevole davvero di miglior
causa. Tutto sommato, le posizioni possono sintetizzarsi in questo modo.
Da
un lato, diciamo dalla parte dei progressisti, ci si lancia in complicate
ipotesi di “grandi riforme di struttura” tutte volte a ridisegnare un percorso
scolastico la cui discriminante qualitativa è individuata nell’età di passaggio
da un grado di scuola all’altro (è meglio un 2 + 4 + 3 + 2 o un 3 + 4 + 3 + + 2
o un 1 + 5 + 3 + 2? dove, lo ricordiamo solo al lettore più distratto, il primo
numero si riferisce agli anni della scuola materna (obbligatoria solo
nell’ultimo caso); il secondo, alle elementari; il terzo, alla media inferiore;
il quarto, ad un supposto biennio obbligatorio.
Dall’altro
lato, abbiamo i tradizionalisti illuminati, i quali sotto l’usbergo di un
pluralismo populistico, ripropongono ancora una volta la coesistenza di scuole
separate come il terreno sul quale meglio si può esercitare la “libertà” di
ciascuno. Quanto poi tale libertà possa diventare spinta alla discriminazione
ideologica e/o fattore di chiusura corporativa, poco importa ai paladini di
questo neoliberismo scolastico.
Ma
quel che più colpisce – perché è chiaro che sarebbe sciocco rimproverare ai
conservatori di essere coerenti e tenaci nella difesa delle loro posizioni – è
la cecità, culturale e politica, di molte persone che pur sono schierate
democraticamente e che in qualche modo hanno pur vissuto l’esperienza degli
ultimi quindici/venti anni.
1
Si
muovono come se non fosse intanto maturata, in numerose parti del Paese, una
realtà scolastica nuova, che ha saputo produrre un patrimonio vivace di
partecipazione ed ancor più di scienza, di professionalità, di ricerca di base.
Ciò che in loro maggiormente sorprende non è solo l’atteggiamento di difesa,
quanto piuttosto l’aver assunto una percezione riduttiva secondo la quale
quanto si è costruito non riesce a superare la logica del “buon servizio”: i
progetti di intervento restano efficienti, “funzionano”, perché sono stati ben
preparati. Niente di più. Ciò che maggiormente manca è una visione complessiva
(e non solo economicistica o settoriale) dei caratteri del modello di sviluppo
neocapitalistico e delle contraddizioni che esso ha esercitato non solo sul
corpo sociale e sulla soggettività dei singoli individui, ma anche sulla
scienza, sugli strumenti di lavoro, sui ruoli operativi.
Certamente
la politica dei servizi (le scuole materne, i nidi, i centri di igiene mentale,
l’inserimento degli handicappati...), nata sotto la spinta dell’occupazione,
del doppio salario in famiglia ecc., ha teso in prima istanza a rispondere ai
bisogni immediati della popolazione. Ma non si è limitata a questo. Cercando di non accasermare i cittadini, di rispondere
ai loro bisogni consultandoli e coinvolgendoli, di farli partecipi sul come
gestire le iniziative fino a realizzare un impegno unitario tra ente locale,
operatori, popolazione, ha dovuto dar luogo anche a vere e proprie invenzioni
di strumenti scientifici nuovi.
Non
si tratta – è bene notarlo subito – di esperienze da isola felice, note ai
pochi addetti ai lavori, ma assai scarsamente collegate con la popolazione
degli stessi paesi dove nascono. Esse non sono nemmeno esperienze esemplari, ma
si pongono come iniziative organiche degli Enti locali, che coinvolgono il
personale in un dibattito sul custiodalismo e più in generale sul significato e
i diritti dell’infanzia, che si collegano alla popolazione in modo dialettico e
che, nel medesimo tempo, hanno alle spalle un movimento di massa capace di
collegare le lotte per conquiste attinenti il settore d’intervento, alle lotte
per la conquista di forme e condizioni di democrazia reale.
Il
miglioramento della prestazione specifica, per esempio, non si pone più solo
come un intervento tecnico separato, ma si lega strettamente a uno sforzo teso
a disgregare i meccanismi dell’individualismo e dell’emarginazione e a
socializzare gli utenti attraverso una funzione “educativa” (politica e culturale)
del servizio che investe sia il singolo che l’ambiente. In questo ambito, i genitori non solo risolvono il
problema della collocazione dei figli, ma sono indotti a porsi in termini di
contenuti più avanzati l’intero problema dell’educazione dell’infanzia. Ciò che
cambia sostanzialmente è la percezione dell’infanzia, della sua collocazione
sociale e politica, della sua storia, dei diritti della sua crescita e, nello
stesso tempo, del suo bisogno di integrazione sociale.
Non
meno copernicano è stato il ribaltamento di posizioni prodotto dall’intenso
processo di maturazione di cui è stato protagonista il personale operativo. È
chiaro che si tratta di una linea di tendenza che non coinvolge tutti, ma che
tuttavia ha portato – per la prima volta nella nostra storia – un attacco a
livello diffuso al patrimonio ideologico e strumentale di una categoria
professionale dominata, nei migliori dei casi, da un’egemonia idealistica di
stampo gentiliano. Ne è nata un’opposizione consapevole al corporativismo e al
tecnicismo arcaico (e anche a quello efficientista che utilizza strumenti
sociologici e psicologici per operazioni “neosegregant”), opposizione nella quale il politico, il
sociale e lo scientifico prendono a coesistere fino a individuare una
differente stratificazione dei problemi e a mettere a punto forze, strumenti,
obiettivi e contenuti meglio adeguati alle richieste di una società
qualitativamente migliore.
2
Quel
che serve è dunque una precisa analisi, teoricamente fondata, della funzione
della politica locale dei servizi del nostro Paese (in questo assai diverso
dagli altri Paesi europei), fino a coglierne le valenze in grado di offrire
sbocchi credibili e generalizzazioni valide per tutti. Quel che serve, in altri
termini, è la capacità di trasformare in scienza le esperienze e le
sperimentazioni attuate in questi anni nelle scuole comunali dell’infanzia, in
modo che l’enorme articolazione di linguaggi, strumenti e soluzioni si traduca
anche in una pratica aggregante traducibile tanto in strumenti di lavoro
generalizzabili quanto in modalità serie di formazione professionale e
culturale.
Non
bastano – le “cecità” di molti interventi ne sono la riprova – i discorsi sul
“buon servizio” né le stucchevoli descrizioni spontaneistico-parapolitiche e
nemmeno le classificazioni secondo la manualistica di maniera (il modello
bruneriano, il modello rogeriano, e così via). Occorre cogliere e diffondere le
conquiste di contenuto esistenti nella realtà operativa, senza per questo
separare le conquiste dalle nuove contraddizioni, nate appunto dall’aver
spostato su un terreno più avanzato la gestione del sapere. Tra l’altro, la
carenza di riflessione teorica contribuisce (o ne è essa stessa il prodotto?) a
mantenere separati gli interventi secondo gli istituti, i settori, gli
assessorati ed a ritardare la nascita di quel progetto territoriale
complessivo, in grado di assicurare coerenza alle esperienze quotidiane e
creare un tessuto in cui l’identificazione posltiva in valori e strumenti
costituisce un’arma efficace contro i processi di disgregazione attualmente in
atto.
3
A
chi spetta fare ciò? Purtroppo, nonostante i sommovimenti del ‘68, permane nel
Paese una percezione idealistica del significato dell’azione culturale, per cui
gli “intellettuali”, “l’altra cultura” non si impegnano più di tanto rispetto a
quei problemi concreti e specifici attinenti ai servizi sui quali l’Ente locale
si è andato impegnando. E anche per l’Università non è facile ipotizzare –
nonostante qua e là ci siano segni di una volontà nuova rispetto alla
tradizione – un ruolo credibile.
E
pur tuttavia occorre fare appello a tutte le forze disponibili, a partire
proprio da quegli operatori che in tutti questi anni hanno reagito con
sorprendenti capacità creative ai problemi che la costruzione di servizi nuovi
imponeva. Quel che serve, comunque, è comprendere che non sono in ballo tanto
le scuole materne, quanto piuttosto quel nuovo modo di produrre scienza che ha
costituito e costituisce l’elemento maggiormente caratterizzante la gestione
dei situazione servizi di molte amministrazioni locali. Per questi motivi non è
demagogico l’invito a partire dagli operatori. Demagogico sarebbe, invece,
limitarsi a loro e non comprendere che la massima unità nelle ipotesi di
intervento esige la massima articolazione di istituti, forze, associazioni,
iniziative per realizzarle.
4
Sono
questi appena alcuni dei motivi che postulano ben diverse basi per awiare una
discussione seria della 444. Le esperienze della scuola comunale sono anche
esperienze dello Stato, di quella scuola pubblica che – nonostante questo Stato
– in Italia ha ormai una storia fatta di scienza, di democrazia, di
professionalità.
Quanto
questa esperienza abbia consentito di capire che si può fare una scuola
diversa, finalmente adeguata alle esigenze contestuali del bambino e di una
società meno ingiusta, costituisce un patrimonio evidentemente non acquisito da
parte di tutte le forze democratiche.
Lavorare
perché questa consapevolezza maturi al più presto è diventato più che mai
necessario ed urgente, anche per questa Rivista.
Sarà
così più facile comprendere che la riforma della scuola di base non è problema
risolvibile con alchimie aritmetiche, da giocarsi magari sulla base dei tassi
di natalità o delle quote di insegnanti attualmente in servizio.
Si
tratta di un intervento che tocca la qualità della vita di tutti. Lo capirono,
quindici anni fa, i comuni democratici. Perché non trasferire a tutti quella
lungimirante consapevolezza?
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