Nima Sharmahd
Senior Researcher presso il Centro VBJK di Gent (Centre for Innovation in the Early Years) e Cultrice della materia presso il Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia dell’Università di Firenze
L’espressione “dittatura della qualità” mi è rimasta impressa nella
memoria, anche perché strettamente legata al tema dell’accessibilità dei
servizi.
A quest’ultimo ho imparato a sensibilizzarmi proprio qui in Belgio,
dove la riflessione è specificamente curvata in questa direzione, forse anche a
causa di una storia caratterizzata da mediazione e da necessità di dialogo tra
differenze (il Belgio è uno Stato federale costituito da tre Regioni –
fiamminga, vallona e Bruxelles Capitale – e tre comunità linguistiche
differenti – fiamminga, francese e tedesca – con responsabilità diverse nei
vari settori della vita pubblica).
In quei nidi belgi che mi erano sembrati
“poco belli”, il personale (quando vi è consapevolezza delle scelte fatte)
sottolinea per esempio che il materiale naturale viene utilizzato, ma accanto a
esso c’è, a volte, anche materiale di altro tipo, per non creare un divario
troppo forte tra ciò che offre il nido e ciò che possono offrire alcune
famiglie.
È in continuità con queste riflessioni
che nelle Fiandre, e in particolare a Gent, si è optato per una politica
dell’accessibilità ai servizi che cerchi di garantire la diversità, a partire
da criteri di accesso al nido che favoriscano la presenza di gruppi sociali
solitamente scarsamente rappresentati. Per questo una percentuale di posti nei
servizi alla prima infanzia è destinata a famiglie che parlano un’altra lingua
a casa, o in cui i genitori sono in cerca di lavoro o in formazione, a
segnalare il fatto che il criterio economico (“entrambi i genitori lavorano,
quindi hanno bisogno del nido”) non può essere sempre il principale parametro
per promuovere l’identità di un nido che vogliamo rappresenti la società in cui
abitiamo, sostenendo l’intreccio di differenze e comunanze.
Guardando l’Italia dalla “Venezia delle
Fiandre”, questa è la prima riflessione che mi sento di affrontare, perché
credo sia un punto importante per la nostra pedagogia. Molte sono le realtà
italiane che hanno lavorato per promuovere una qualità ricca, che è oggi
riconosciuta e giustamente presa ad esempio a livello internazionale (a partire
dal Belgio). Ma, come mi disse un’educatrice qualche anno fa durante
un’intervista: “In questo mestiere non si
arriva mai. Si tende sempre verso, ma non si arriva mai”.
E allora, una possibile direzione verso
la quale andare, potrebbe proprio essere quella di una riflessione/azione più
approfondita e mirata sul tema dell’accessibilità e delle differenze.
Niente di banale o stereotipato, ma una
reale politica dell’accoglienza che potrebbe partire da queste domande: chi
esattamente viene raggiunto da quello che offriamo, per quanto “bello” e “di
qualità” possa essere?
Chi rimane escluso oppure si autoesclude?
E perché?
Qual è l’idea di educazione, di nido, di
scuola, di bambino e bambina delle educatrici, delle famiglie che frequentano e
di quelle che non frequentano i nostri servizi educativi?
Come creare una vera negoziazione tra
queste idee? E come favorirla anche a livello di politiche educative?
Come orientare le pratiche e le idee educative senza
imprigionarle?
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