di Elisabetta
Marazzi
Lavorare in un contesto educativo vuol dire incontrarsi con
colleghe e colleghi con cui confrontarsi quotidianamente, significa lavorare
con altri adulti e stare nella relazione con persone che, inizialmente, non
sono note e che sono accomunate solo dal fare lo stesso mestiere.
Fare
l’educatore comporta costruire relazioni professionali all'interno di un
gruppo, relazioni che non sono date ma che vanno create progettando situazioni
e contesti adeguatamente agevolanti: “Che per costituire un gruppo non basti la presenza simultanea di
più soggetti nello stesso luogo è un’acquisizione ovvia per la maggior parte
degli addetti ai lavori nei diversi ambiti educativi. Si è consapevoli,
generalmente, che occorre un obiettivo condiviso verso cui tendere con la
motivazione a raggiungerlo; che i tempi e il luogo dello stare insieme, nonché
la loro organizzazione, devono essere codificati secondo una scansione
esplicitata e accettata da tutti; che i vari soggetti devono attivare scambi
comunicativi attraverso cui realizzare una reciprocità di riconoscimento, di
coesione, di appartenenza” (M. Contini, a cura di, Il gruppo educativo. Luogo di scontri e
di apprendimenti, Carocci, Roma, 2000).
L’idea di un buon gruppo di
lavoro è sovente quella in cui tutti vanno d’accordo e condividono gli stessi
pensieri e gli stessi significati connessi al fare educativo. Il conflitto, lo
scontro, la disapprovazione sembrano non dover essere parte di una rete di
collaboratori che possa definirsi adeguata. Di fatto, come accade nelle altre
relazioni, incontrarsi vuole anche dire scontrarsi: “Il primo momento da prevedere nel
rapporto tra soggetti motivati a raggiungere insieme un obiettivo comune è lo «scontro»:
di modi di conoscere, sentire, comunicare che non collimano, ma divergono e si
contrappongono; di modi d’interpretare e valutare quella contrapposizione; di
modi di prefigurare le possibili vie di superamento dello scontro stesso. Con
la diversità dell’altro, se la si prende davvero in considerazione e la si
rispetta, ci si scontra e non ci si incontra, almeno inizialmente. Per arrivare all'incontro occorre lavorare a lungo, ridefinire i propri parametri di
riferimento cognitivi e i propri repertori affettivo-comunicativi, acquisendone
consapevolezza e attivando una tensione al cambiamento che lasci spazio all'emergere della differenza: propria e altrui” (ibidem).
Ecco quindi che parte del
bagaglio formativo dell’educatore dovrebbe forse essere una sorta di
apprendistato del conflitto per far sì che ciascun professionista impari a
riconoscere, tollerare e gestire, in maniera efficace e produttiva, per sé e
per gli altri i conflitti e le divergenze di opinioni o posizioni: “Il gruppo di tipo pedagogico può
costituire un’occasione preziosa per sperimentare, accanto e prima dei momenti
d’incontro con l’altro anche momenti di «scontro», in cui emergono le
rispettive diversità e tramite i quali si può individuare e costruire la
propria differenza” (ibidem).
La complessità forse non sta tanto nell'ascoltare o meno, nel
sentirsi ascoltati o meno (dal punto di vista dell’avere ragione) quanto,
piuttosto, nel riuscire a cogliere che le differenze sono un’occasione e che
queste diversità sono elemento fondamentale per un gruppo di lavoro, il quale,
per costituirsi e mantenersi, non solo non deve essere mai dato per scontato
ma, soprattutto, necessita del costante impegno di ciascuno e
dell’irrinunciabile contributo di tutti.
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