A cura del Coordinamento pedagogico di Torino. Testo
redatto da: Giusi Marrella, Maria
Antonietta Nunnari, Luciana Pellizzoni, Claudia Regio, Vincenzo Simone e Maria
Grazia Tiozza. Per contattare gli autori: cit.educ@comune.torino.it. Pubblicato sulla rivista bambini del Marzo 2013. Qui il link diretto per l'articolo completo.
“Dovremmo
insegnare ai bambini a danzare sulla fune, a dormire di notte da soli sotto
un cielo stellato, a condurre una barca
in mare aperto. Dovremmo insegnare loro
ad immaginare castelli in cielo, oltre che case sulla terra, a non sentirsi a casa se non nella
vita stessa ed a cercare la
sicurezza dentro se stessi”
(H.H.
Dreiske)
La riflessione sui processi di trasformazione che
caratterizzano il nostro tempo, proposta in questi mesi di collaborazione con
“Bambini” quale chiave di lettura delle progettualità dei servizi per
l’infanzia torinesi, sollecita ulteriori questioni.
Appare più che mai
necessario interrogarci sul futuro dei bambini che crescono nei nostri servizi,
chiedersi con Meirieu, “Quale mondo lasciamo
ai bambini? quali bambini lasciamo a questo mondo?”1, o più
precisamente, come aiutiamo i bambini a crescere nella relazione con l’ambiente
in cui si intrecciano autonomia e dipendenza, libertà e limite e anche rischio
e protezione? Come sottrarre l’infanzia dall’abbraccio soffocante dell’iper -
protezione?
Difendersi dai pericoli e
misurarsi con i rischi
La relazione con l’ambiente, a
cui molte delle esperienze delle nostre scuole sono orientate, sollecita a
confrontarsi con la pedagogia del rischio. Una pedagogia che riconosce il valore formativo a
esperienze che incontrano il limite, la fatica, la sconfitta e talvolta anche
il dolore, elementi costitutivi della nostra umanità. Nonostante le nostre società
abbiano raggiunto un livello di benessere molto più alto che in passato, invece
di accrescere la fiducia nel futuro, l’aumento dei beni e della conoscenza ha
moltiplicato l’incertezza. Zygmunt Bauman nota come nei Paesi sviluppati “contrariamente
alle prove oggettive, siamo proprio noi tanto vezzeggiati e viziati, a sentirci più minacciati, insicuri e
spaventati, più inclini al panico e più interessati a tutto ciò che riguarda
l’incolumità e la sicurezza, rispetto alla maggior parte delle altre
società conosciute”2.
Questa riflessione riguarda anche
l’atteggiamento nei confronti dei bambini nella nostra società, cui non mancano
beni materiali, né esperienze, né adulti di riferimento, ma che sono a volte
protetti in maniera ossessiva, in un mondo caratterizzato dalla cultura
dell’apprensione, a costo di sacrificarne, soprattutto nel confronto con altre
culture non occidentali, l’autonomia personale e sociale. Un ruolo fondamentale
nel determinare l’amplificazione della percezione del rischio è giocato
dall’informazione (il suo volume, il livello di drammatizzazione con cui è
presentata, il grado di incertezza che la caratterizza, il suo valore
simbolico), ma anche da una serie di altri fattori, i valori individuali e
sociali, (il valore di allarme che un determinato pericolo riveste…). Dovendoci
fidare del giudizio degli altri siamo portati a fidarci di coloro che
condividono con noi un comune sistema di valori. A differenza del pericolo,
che è oggettivo e viene dall’esterno, il rischio che “si corre” è legato
a dimensioni di incertezza e imprevedibilità dell’esperienza ma anche al gusto
della sfida, al desiderio di mettersi alla prova, all’affermazione del proprio
protagonismo. Si tratta di scoprire, indagare e problematizzare il mondo
“entrando nella vita” attraverso eventi
e situazioni che sollecitano curiosità, domande e mettono in gioco mente e
corpo: emozioni, sensazioni, percezioni, creatività, capacità e limiti fisici.
Tutto ciò
favorisce l’acquisizione di
un’immagine realistica di sé e delle proprie potenzialità in relazione non solo
al rischio fisico (il farsi male) ma anche al rischio cognitivo ed emotivo (il
rischio di sbagliare, di trasgredire, di entrare in conflitto, di affrontare il
cambiamento). “Certamente – come dice Tonucci – non si può educare al rischio
insegnandolo. Occorre incontrarlo,
conoscerlo, superarlo. Ciascuno deve
farlo per sé, con le sue forze. D’altra parte di una cosa possiamo essere
sicuri: il bambino non è mai un aspirante suicida o anche solo masochista, il
rischio che affronta è sempre proporzionato
alle sue capacità e possibilità e lo affronta perché è necessario al suo
piacere”. La prospettiva del rischio pone pertanto i bambini, e prima ancora
gli adulti, in una condizione di straordinaria responsabilità, in quanto autori
critici e riflessivi delle proprie e altrui esperienze di crescita.
Responsabilità che frequentemente viene evitata ed elusa dagli adulti
ricorrendo a divieti e prescrizioni che, per proteggere, negano esperienze.
Sicurezza ed educazione al rischio: quali possibili alleanze
È noto come una delle principali
preoccupazioni per le famiglie sia la sicurezza dei propri figli. Preoccupazione amplificata da notizie di
cronaca riguardanti lo stato di degrado di alcuni edifici scolastici, in particolare
degli ordini di scuola superiori. Ma l’attenzione è giustamente puntata verso
la garanzia di condizioni di sicurezza massime, per gli allievi e per i
lavoratori, disciplinate da corpus legislativi appositi. Il concetto di sicurezza rappresenta spesso una forte
limitazione alle progettualità nei servizi. Non raramente sentiamo affermare
che “per motivi di sicurezza” un’attività didattica non può aver luogo.
Questa enfasi sulla sicurezza,
che è assolutamente giustificata nei
suoi principi, e le cui disposizioni sono doverosamente rispettate nei
servizi, rischia non solo di impoverire
le opportunità formative, ma anche di non far cogliere la differenza tra
pericoli e rischi. Occorre dunque operare tra il rigore normativo, che negli
ultimi decenni ha contribuito a migliorare le condizioni e le tutele dei
diritti dei lavoratori e il diritto a rischiare in quanto “valido alleato dei
processi educativi e formativi”3.
Tale logica porta a una pedagogia
del rischio che suggerisce di superare il concetto di norma per arrivare alla
persona, di fare sicurezza in modo consapevole, di riflettere insieme
sull’esperienza senza focalizzarsi solo su procedure rigide. Questo richiede di
condividere responsabilità tra le diverse figure professionali che si occupano
di sicurezza e di educazione all’interno
delle scuole (urbanisti, architetti, responsabili amministrativi, pedagogisti, insegnanti)
trovando mediazioni che tengano insieme sicurezza e orizzonti educativi di
senso. Vorremmo dunque proporre un
confronto tra tutti i professionisti dell’educazione e della cura della prima
infanzia, con gli operatori della sanità, con i genitori e le persone
interessate su quanto l’educazione al
rischio sia un aspetto fondamentale per imparare a mettersi alla prova, a
riconoscere i propri limiti, a sapersi muovere e orientare nel mondo.
L’educazione al rischio non è incompatibile con l’educazione alla sicurezza a
cui va attribuito, come ormai è chiaro, valore in quanto insieme di
comportamenti di protezione da pericoli esterni. Questo tema sarà sviluppato
negli incontri, rivolti anche alle famiglie, che con la collaborazione del
Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia del Piemonte, proporremo nei nostri servizi,
con l’obiettivo di suscitare dibattito, approfondire riflessioni e confrontare
esperienze. Siamo dell’idea che i bambini abbiano il diritto di crescere in una
realtà che non sia ovattata, artefatta, caratterizzata da un mondo di plastica
a norma, di spazi curvilinei e senza spigoli, di alberi senza radici
affioranti, fonti di possibili inciampi, e che si debba invece educare al
rischio attraverso la conoscenza e l’esperienza
autentica connotata da scoperte, esplorazioni, sperimentazione. Il rischio è insito nella
vita stessa. L’importante è offrire ai bambini contesti di vita, “palestre di
allenamento”, dove gli adulti, pronti a intervenire se necessario, riconoscano
loro possibilità d’azione, capacità di autodeterminarsi e di mettersi alla
prova.
La stessa capacità di gestire i
rischi, infatti, implica la possibilità
di poter incontrare situazioni di potenziale pericolo e anche di potersi
sperimentare più volte per accrescere le nostre abilità nell’evitarlo o nel
superarlo.
Nelle nostre culture sempre più
virtuali e seduttive si rischia di limitare le esperienze di esplorazione dell’ambiente
a favore dell’aspetto simbolico e astratto. Si rischia cioè di perdere
di vista un elemento di vitale importanza nel processo evolutivo che è quello dell’esperienza nella sua
globalità: le esperienze tattili e motorie che rappresentano il punto di
partenza per la maturazione delle aree
superiori di linguaggio e pensiero.
Tutto ciò è coerente con quanto
dichiarato nelle finalità delle nuove Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo
di istruzione che fanno riferimento a vari ambiti di indagine pedagogica che devono essere assunti nella loro
interdipendenza e trasversalità: si è autonomi se la nostra identità è
consolidata, riconosciuta e accettata, se riusciamo a esprimere i nostri
sentimenti senza esserne sopraffatti, se ci mettiamo in dialogo con gli altri,
se ci appropriamo della nostra esperienza e delle nostre azioni con
riflessività, se sappiamo esprimere,
rappresentare attraverso la pluralità dei linguaggi noi, gli altri e il
mondo che ci circonda.
Si può dunque essere certi che i
bambini cresceranno comunque, anche in un ambiente povero di stimoli, con
giocattoli di plastica, tappeti e spigoli arrotondati; ma è altrettanto vero
che, se si semplifica e si riduce la loro possibilità di essere in contatto con
gli elementi naturali, gli esseri viventi, la varietà degli ambienti, le
possibilità di agire di un contesto vario, si preclude loro la possibilità di
acquisire alcune abilità come la capacità di far fronte agli imprevisti senza
destrutturarsi, l’iniziativa e il protagonismo di trovare soluzioni innovative
alle varie questioni che la vita degli esseri umani sempre pone.
1 P. Meirieu, Lettera agli adulti
sui bambini di oggi, Edizioni Junior-Spaggiari edizioni, Parma, 2012, p. 33.
2
Z. Barman, Modus vivendi. Inferno
e utopia del mondo liquido, Laterza, Roma, 2007, p. 61.
3
A. Garbarini, M.A. Nunnari (a
cura di), I diritti delle bambine e dei
bambini, atti del Convegno nazionale
Torino 2010, Edizioni Junior, Azzano S. Paolo (Bg), 2010.
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