lunedì 30 giugno 2014

Malaguzzi. 10 editoriali 10. "TUTTO PIÙ' DIFFICILE SE LO STATO NON C'E'.

Proseguiamo nella pubblicazione degli editoriali di Loris Malaguzzi, aggiungendo un articolo di approfondimento e commento redatto da Paola Cagliari, Pedagogista, Direttore Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia del Comune di Reggio Emilia. 
Aggiungiamo anche un articolo di Sergio Neri, pubblicato nel 1981 sulla rivista 0-6, articolo da cui Malaguzzi prendeva spunto per redigere il suo intervento.
Buona lettura!

Se l’educazione è un bene comune
La relazione pubblico/privato nella gestione dei servizi 0/6
Paola Cagliari
Pedagogista, Direttore Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia, Comune di Reggio Emilia

Pubblichiamo, in questo ultimo numero dell’annata, un editoriale di Malaguzzi del 1981 che prendeva le mosse da un articolo di Sergio Neri, pubblicato il mese precedente su Zerosei, per svolgere un tema ancora oggi molto attuale: la relazione tra pubblico e privato nella gestione dei nidi e delle scuole dell’infanzia. L’editoriale di Sergio Neri metteva in luce alcune questioni drammaticamente attuali:
1. il dibattito che coinvolge il nido e la scuola dell’infanzia non si genera mai da una ricerca sull’identità di questi servizi, ma sempre da cause esterne quali le politiche del lavoro o la riforma di altri livelli scolastici;
2. ancora oggi, in molte parti d’Italia, non siamo riusciti a superare la logica del “buon servizio”. Sergio Neri auspicava “una differente collocazione sociale dell’infanzia” che la ponesse come soggetto politico e “il riconoscimento del patrimonio di partecipazione, di scienza, di professionalità, di ricerca di base” che l’esperienza comunale aveva saputo produrre. Obiettivi che sono ancora da raggiungere. I fatti di questi ultimi anni ne sono una dimostrazione. Il calo delle risorse finanziarie dei Comuni e la crisi economica che sta mettendo in difficoltà le giovani famiglie stanno alimentando da una parte la dismissione della gestione diretta dei servizi educativi da parte dei Comuni, dall’altra un calo della domanda ai Nidi e alle Scuole dell’infanzia in favore di soluzioni private e privatistiche. Certamente la crisi e l’aumento della disoccupazione stanno creando nuove povertà,
ma se tra i “tagli” che le famiglie scelgono di operare per far quadrare il bilancio i primi sono il nido e la scuola dell’infanzia significa che la cultura dell’infanzia, a cui lavorano tanti cittadini da cinquant’anni con impegno politico e professionale, non è riuscita a consolidarsi nella cultura del nostro Paese. Non siamo riusciti a consolidare un’idea di educazione bene comune, diritto dei bambini fin dalla nascita e responsabilità della società; non siamo riusciti a consolidare un’idea di bambino ricco di potenzialità che necessitano, per essere sviluppate, di contesti educativi di qualità e di collettività. Un’idea che numerose ricerche suffragano con evidenze empiriche.
Questo è un grave problema per la società italiana che rischia di perdere, con i nidi e le scuole dell’infanzia, che pure sono presenti in modo disomogeneo nel Paese, un presidio importante per l’integrazione e la partecipazione. Proprio nel momento in cui il lavoro non c’è o è precario e saltuario, il nido e la scuola dei bambini diventa per i genitori il luogo della relazione, della partecipazione, della ricollocazione del proprio ruolo nel sociale. I servizi educativi sono infatti nodi di connessione importanti tra gli individui e la società e sono una componente essenziale del benessere e del grado di civiltà di una società. Sergio Neri parlava di un “progetto  territoriale complessivo in grado di assicurare coerenza alle esperienze quotidiane”, un tema ripreso e sviluppato da Loris Malaguzzi nel suo editoriale. In alcune parti d’Italia, soprattutto del Nord Italia, da almeno due decenni il Sistema Pubblico Integrato è una realtà. Il Sistema Pubblico Integrato vincola, all’interno di norme e riferimenti condivisi, differenti soggetti gestori a offrire un servizio pubblico, quindi inclusivo, accessibile e laico, alle famiglie e ai bambini. Fare sistema non signifi ca solo incontrarsi ma riconoscere un ruolo di co-progettazione a tutti gli enti gestori, in tavoli di confronto dove il Comune può avere un ruolo forte, se sul piano qualitativo, il progetto pedagogico e gestionale, che ha costruito gestendo direttamente un numero significativo di servizi, è autorevole. Il Comune, in quanto direttamente vicino ai cittadini, è l’Ente maggiormente capace di interpretare, attraverso pratiche di partecipazione attiva, il ruolo dei servizi educativi sul proprio territorio, valorizzando le competenze e interpretando i diritti e le istanze culturali e sociali. Il superamento della contrapposizione ideologica pubblico-privato è stata una tra le conquiste di questi decenni. Questo non significa non tenere le distinzioni di identità, le radici in cui affondano e prendono forma le esperienze, ma realizzare un dialogo rispettoso e l’individuazione dei valori e dei temi di fondo: le condizioni per garantire la qualità dell’esperienza ai bambini e le famiglie, una progettazione condivisa del sistema educativo cittadino, politiche per l’accesso coerenti all’interno del sistema (criteri, rette, orari...), la condivisione dell’idea che il diritto all’educazione dei bambini è una responsabilità  per la comunità cittadina. Il nodo vero rimane però comunque il governo pubblico  delle politiche che costituisca la cornice dentro a cui le singole identità possono esprimersi nel dialogo. Pensiamo che il Sistema Pubblico Integrato, così disegnato, si collochi nel secondo scenario che Malaguzzi indica e auspica, nell’editoriale che pubblichiamo, come alternativo alle pedagogie separate e a scuole chiuse e afone che, in virtù della difesa della possibilità di scelta degli adulti, limitano le possibilità di scelta dei bambini. C’è una diffusa smemoratezza nel nostro Paese che fa decadere dai dibattiti e dalle proposte di legge sul sistema 0/6 anni la parola pubblico, per cui il sistema viene designato solo come integrato. Ma la perdita di questa designazione è una perdita sul piano politico gravissima. Le politiche, attraverso il ruolo dei Comuni, gestori diretti di servizi e coordinatori del sistema, devono essere e rimanere pubbliche e integrare enti gestori pubblici e privati all’interno di una visione di educazione bene comune, di regole condivise e di un’idea laica di educazione dove le differenze entrano in dialogo e si confrontano.
L’essere pubblico non va identificato con la natura sociale del soggetto che eroga il servizio, ma sull’inclusività, accessibilità, apertura e dialogo con il territorio, partecipazione al sistema, accettazione di vincoli di reciprocità in una  ottica di sussidiarietà.
C’è una differenza sostanziale tra sussidiarietà e privatizzazione dei servizi. La sussidiarietà è prevista dall’art 118 della  Costituzione che afferma “Stato,Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarità”. Tale principio implica che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni necessarie per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività. La privatizzazione dei servizi è la loro cessione senza condizioni a soggetti che fanno questo per ritorno economico in una logica di mercato.
Nell’ambito del 3/6 lo Stato non offre il 100% di scolarità, né ha predisposto piani di finanziamento adeguati a raggiungere questo obiettivo. Non dare le condizioni per il mantenimento dei servizi esistenti vuol dire di fatto non consentire ai bambini di avere il diritto alla scuola (oltre al fatto che ogni struttura chiusa è una struttura che non riaprirà più). L’invito è di produrre un dibattito sul tema pubblico/privato non ideologico e capace di includere, qualificare e valorizzare le esperienze esistenti con l’obiettivo di dare a tutti i bambini, come scrive Loris Malaguzzi, “la scuola che si meritano”.
Per questo oggi è importante che il Parlamento approvi il prima possibile una legge 0/6 che:
- all’interno di una visione e un impianto organico del sistema di istruzione e formazione da 0 a 99 anni, riconosca unitarietà e pari dignità a tutti i servizi educativi e scolastici dal nido fino alla formazione permanente;
- riconosca ai bambini da 0 a 3 anni l’esigibilità del diritto all’educazione in collettività. Questo può essere attuato togliendo il nido d’infanzia dal novero dei servizi a domanda individuale, per inserirlo a pieno titolo nel sistema di istruzione e formazione aggiungendo alla sua denominazione il termine “educativo”;
- proponga i servizi educativi 0/6 come rappresentanti delle politiche proprie per l’infanzia, sottraendole alla subordinazione dalle politiche del lavoro e della famiglia;
- sancisca il ruolo centrale degli enti locali nella governance del sistema pubblico integrato, quali gestori dei servizi educativi per la prima infanzia, garanti della qualità dei servizi stessi, siano essi pubblici, convenzionati o privati;
- ponga le basi giuridiche perché tutti gli enti gestori abbiano il riconoscimento di tale ruolo e le condizioni opportune e necessarie per svolgerlo, con un adeguato piano di finanziamenti;
- assicuri la qualità del servizio ponendo vincoli quali la formazione in servizio, la collegialità del lavoro, la compresenza di più figure col gruppo dei bambini, il coordinamento pedagogico;
- assumendo la centralità dei diritti dei bambini, proponga la conciliazione tra questi ed i diritti del genitore - lavoratore, chiedendo al mondo del lavoro di assumersi la sua parte in queste politiche;
- riconosca il diritto dei genitori, individuati come portatori di saperi, di essere parte attiva della costruzione del progetto educativo che coinvolge i loro fi gli e la collettività, attraverso la partecipazione sociale. Per tutto questo chiediamo il sostegno di tutti coloro che credono che i servizi educativi sono una componente importante del benessere e del grado di civiltà di una società.
È possibile firmare per sostenere la rapida approvazione di una legge 0/6 andando sul sito www.grupponidiinfanzia.it




TUTTO PIÙ DIFFICILE SE LO STATO NON C’È
di Loris Malaguzzi

L’incontro tra il ministero della Pubblica Istruzione, regioni, comuni, sindacati confederali  (da cui prendeva le mosse l’editoriale di Sergio Neri sull’ultimo numero della rivista) attorno alla 444 non si è fatto. E a tutt’oggi niente indica che si farà.
Con tutta franchezza, almeno da parte nostra, diciamo che non ne siamo dispiaciuti. Anzi. Le procedure e i documenti che accompagnavano il progetto erano (e anche in modo contrapposto) vistosamente al di sotto dell’importanza del tema e della chiarezza necessaria e lasciavano trasparire non poche ingenuità; compresa quella di accreditare che i grossi problemi legati comunque a sostanziali modifiche della 444, potessero affrontarsi e condursi a soluzioni accettabili e positive al di fuori di una provvida consultazione e di quelle sperimentazioni, non solo cautelative, previste dal piano di riforma della secondaria; e al di fuori di un confronto delle forze politiche e di un quadro di riferimento capace di dare finalmente una rigorosa identità culturale alla scuola dei bambini da 3 ai 6 anni (se ancora si arriva in tempo), contestualmente ai temi della scuola e dell’educazione di base. Il rischio di assistere ancora al vezzo dell’aggiustamento, del colpetto volpino,   delle   grandi bonifiche assistenziali (sostanzialmente  del  rinvio  sistematico che è quello che da anni la politica scolastica ci propina) non è scongiurato. Le impressioni e gli inviti di Neri puntavano essenzialmente a dare spessore e centralità alle molte e decisive questioni connesse con la 444 che specie quando divengono materia di confronto e di scelte, esigono di essere portate al massimo della chiarezza e della consapevolezza: non per una o alcune delle parti ma per tutte le parti che vi intervengono.


Le  questioni che si annodano alla 444, alla legge che nel 1968 ha sancito il dovere dello Stato di istituire la sua scuola materna e di provvedere con responsabilità dirette all’educazione dei bambini da 3 a 6 anni, sono molte. E certo c’è anche quella della scuola materna privata, del suo posto in una società pluralista, dei suoi rapporti con lo Stato e le sue leggi: un problema che si richiama a realtà e a principi e che chiede adeguamenti legislativi. Una materia che ha complicazioni storiche e politiche ma che accampa ragioni e interpretazioni che chiedono legittimamente di misurarsi sul terreno dell’organizzazione dello Stato e dei suoi servizi, diretti e indiretti, rivolti alla società civile.
Il confronto attorno a questi problemi, mantenuto vivo e teso da parte delle forze di ispirazione cattolica, ha tentato in questi anni la via periferica delle convenzioni tra scuole private e enti territoriali e decentrati dello Stato. Un’operazione che cercava soprattutto riconoscimenti e che in parte ha raggiunto dei risultati, oggi non più bastevoli: ma che ha lasciato aperti molti interrogativi e molte ambiguità.

In realtà la questione nei suoi termini essenziali e ultimi è ancora in alto mare. Non sono chiare molte cose: quale è (o dovrebbe essere) lo Stato (i suoi poteri, i suoi doveri, i suoi rapporti con i gruppi economici privati, l’informazione, la scienza, la cultura ecc.) con cui la
scuola privata chiede un nuovo rapporto? E quale il ruolo delle amministrazioni pubbliche territoriali che sono parte integrante dello Stato? Quale il ruolo pubblico della scuola privata, i termini della sua soggettività etica e culturale e i termini della sua effettiva idoneità a rispondere alla domanda oggettiva, differenziata, dei cittadini e del territorio e gli ambiti riconoscibili per una sua visualizzazione all’interno di una politica di piano e di scelte programmate? Quale la funzione che si accredita allo Stato nei confronti della scuola statale pubblica e nei confronti della collettività nazionale a garanzia del diritto fondamentale dei cittadini, di tutti i cittadini, a godere di un’educazione laica che assicura la cultura della ricerca e del confronto e la libera e permanente opzionalità di coscienza?
Scorrendo via via i discorsi della stampa che patrocina gli interessi della scuola privata, è facile annotare l’insistere di posizioni antistatalistiche e antistituzionali, di accuse contro lo Stato che discrimina e perseguita, di denunce contro l’incompetenza della politica e dei politici: cui si ama spesso contrapporre purezze ed estraneità più che dubbie, radicalismi demagogici, forme evanescenti e ingenue di contro organizzazione sociale.
Giusto secondo quello che alcuni definiscono il vecchio catastrofismo cattolico o, con interpretazione più misurata, la storica e ricorrente sfiducia dei cattolici nei confronti delle pubbliche istituzioni. Dove, ci sia concesso dire, è incombente il rischio di metodologie giusnaturalistiche che possono decomporre, sbriciolare il corpo sociale in autonomie effimere e bugiarde con diritti inalienabili da parte di ognuno o del gruppo, da non negoziare, né politicamente né eticamente, all’interno della realtà più composita (e classista) della realtà sociale.  In questa filosofia la concezione di una pedagogia separata e di una scuola chiusa, afona e triste nella sua pur perfetta sintonia di voci, vocazioni e libere scelte fatte da adulti per meno libere scelte dei bambini, è in corretta coerenza; fino al punto che i genitori dei bambini sono invocati ad essere i naturali guardiani dell’apartheid. “La partecipazione dei genitori – si scrive – non dovrà essere vista come aggiuntiva ma come sostitutiva di quella dell’ente pubblico e dello Stato”.
Accanto a discorsi di questo tipo, visibilmente faziosi e ingenerosi, per fortuna ce ne sono altri. Che, seppure di minoranza, riconoscono il ruolo primario “della programmazione della pubblica amministrazione”, sottolineano l’utile sociale derivante “dalla collaborazione dell’istituzione privata al raggiungimento di obiettivi che la programmazione pubblica propone”, inserendosi in una feconda strategia “di integrazione”. Qui la concezione pedagogica sottesa è di altra marca. Ed è chiaro che è solo questo secondo discorso che ne sollecita e ne genera altri.
Ma la grossa possibile anomalia in una questione che sarà risolta bene solo se tutti anteporranno ai discorsi di parte, il discorso che mira a dare ai bambini la scuola che si meritano (e che ancora non hanno) accettando il merito della chiarezza, è che possa essere lo Stato (la storia accumulata dai governi di questo Stato) a sottrarsi o a mancare in parte al ruolo e ai compiti che gli sono prescritti, proprio in sede di trattativa e di confronto. Non per le ragioni addotte con irriconoscenza dalla stampa patrocinante che abbiamo più su detto (e che farebbe bene a ripercorrere con la memoria la storia dei favori e delle alleanze ricevuti) ma per la sua paradossale ventennale inintenzionalità (giusto dai tempi del ministro Gonella appena si profilò politicamente l’ipotesi della nascita della scuola materna pubblica) a tenere in pugno il suo doveroso ruolo primario nella costruzione della sua scuola e della scuola più in generale del bambino.
Avrebbe potuto essere un’eccezionale innovativa esperienza storica. Solo lo Stato non avesse piegato le ginocchia e avesse voluto, contro nessuno, innestare le lezioni gloriose del passato (fatti e intuizioni che all’estero ci invidiano) in quelle che la vicenda contemporanea (della scuola della cultura, della politica) andava chiedendo.
L’amico Neri ha ragione quando richiama questo problema. E noi invitiamo a riflettere quanto abbiano bloccato la storia – da quella culturale a quella di costume – le risorse e le occasioni buttate da questa scuola materna statale (da cui ancora sono esclusi 600.000 bambini) nata e tenuta in vita da un amore solo complementare e sussidiario. Quello che ancora gli esprime lo Stato.

Non è solo un “buon servizio”
Sergio Neri
Attorno al futuro della scuola materna – statale, comunale e privata – le discussioni si stanno facendo ogni giorno più fitte. Ben vengano, verrebbe fatto di dire, se esse non fossero per lo più volte al domani, in uno sforzo di trascuratezza del presente o anche del passato più vicino, meritevole davvero di miglior causa. Tutto sommato, le posizioni possono sintetizzarsi in questo modo.
Da un lato, diciamo dalla parte dei progressisti, ci si lancia in complicate ipotesi di “grandi riforme di struttura” tutte volte a ridisegnare un percorso scolastico la cui discriminante qualitativa è individuata nell’età di passaggio da un grado di scuola all’altro (è meglio un 2 + 4 + 3 + 2 o un 3 + 4 + 3 + + 2 o un 1 + 5 + 3 + 2? dove, lo ricordiamo solo al lettore più distratto, il primo numero si riferisce agli anni della scuola materna (obbligatoria solo nell’ultimo caso); il secondo, alle elementari; il terzo, alla media inferiore; il quarto, ad un supposto biennio obbligatorio.
Dall’altro lato, abbiamo i tradizionalisti illuminati, i quali sotto l’usbergo di un pluralismo populistico, ripropongono ancora una volta la coesistenza di scuole separate come il terreno sul quale meglio si può esercitare la “libertà” di ciascuno. Quanto poi tale libertà possa diventare spinta alla discriminazione ideologica e/o fattore di chiusura corporativa, poco importa ai paladini di questo neoliberismo scolastico.
Ma quel che più colpisce – perché è chiaro che sarebbe sciocco rimproverare ai conservatori di essere coerenti e tenaci nella difesa delle loro posizioni – è la cecità, culturale e politica, di molte persone che pur sono schierate democraticamente e che in qualche modo hanno pur vissuto l’esperienza degli ultimi quindici/venti anni.

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Si muovono come se non fosse intanto maturata, in numerose parti del Paese, una realtà scolastica nuova, che ha saputo produrre un patrimonio vivace di partecipazione ed ancor più di scienza, di professionalità, di ricerca di base. Ciò che in loro maggiormente sorprende non è solo l’atteggiamento di difesa, quanto piuttosto l’aver assunto una percezione riduttiva secondo la quale quanto si è costruito non riesce a superare la logica del “buon servizio”: i progetti di intervento restano efficienti, “funzionano”, perché sono stati ben preparati. Niente di più. Ciò che maggiormente manca è una visione complessiva (e non solo economicistica o settoriale) dei caratteri del modello di sviluppo neocapitalistico e delle contraddizioni che esso ha esercitato non solo sul corpo sociale e sulla soggettività dei singoli individui, ma anche sulla scienza, sugli strumenti di lavoro, sui ruoli operativi.
Certamente la politica dei servizi (le scuole materne, i nidi, i centri di igiene mentale, l’inserimento degli handicappati...), nata sotto la spinta dell’occupazione, del doppio salario in famiglia ecc., ha teso in prima istanza a rispondere ai bisogni immediati della popolazione. Ma non si è limitata a questo. Cercando di non accasermare i cittadini, di rispondere ai loro bisogni consultandoli e coinvolgendoli, di farli partecipi sul come gestire le iniziative fino a realizzare un impegno unitario tra ente locale, operatori, popolazione, ha dovuto dar luogo anche a vere e proprie invenzioni di strumenti scientifici nuovi.
Non si tratta – è bene notarlo subito – di esperienze da isola felice, note ai pochi addetti ai lavori, ma assai scarsamente collegate con la popolazione degli stessi paesi dove nascono. Esse non sono nemmeno esperienze esemplari, ma si pongono come iniziative organiche degli Enti locali, che coinvolgono il personale in un dibattito sul custiodalismo e più in generale sul significato e i diritti dell’infanzia, che si collegano alla popolazione in modo dialettico e che, nel medesimo tempo, hanno alle spalle un movimento di massa capace di collegare le lotte per conquiste attinenti il settore d’intervento, alle lotte per la conquista di forme e condizioni di democrazia reale.
Il miglioramento della prestazione specifica, per esempio, non si pone più solo come un intervento tecnico separato, ma si lega strettamente a uno sforzo teso a disgregare i meccanismi dell’individualismo e dell’emarginazione e a socializzare gli utenti attraverso una funzione “educativa” (politica e culturale) del servizio che investe sia il singolo che l’ambiente. In questo ambito, i genitori non solo risolvono il problema della collocazione dei figli, ma sono indotti a porsi in termini di contenuti più avanzati l’intero problema dell’educazione dell’infanzia. Ciò che cambia sostanzialmente è la percezione dell’infanzia, della sua collocazione sociale e politica, della sua storia, dei diritti della sua crescita e, nello stesso tempo, del suo bisogno di integrazione sociale.
Non meno copernicano è stato il ribaltamento di posizioni prodotto dall’intenso processo di maturazione di cui è stato protagonista il personale operativo. È chiaro che si tratta di una linea di tendenza che non coinvolge tutti, ma che tuttavia ha portato – per la prima volta nella nostra storia – un attacco a livello diffuso al patrimonio ideologico e strumentale di una categoria professionale dominata, nei migliori dei casi, da un’egemonia idealistica di stampo gentiliano. Ne è nata un’opposizione consapevole al corporativismo e al tecnicismo arcaico (e anche a quello efficientista che utilizza strumenti sociologici e psicologici per operazioni “neosegregant”),  opposizione nella quale il politico, il sociale e lo scientifico prendono a coesistere fino a individuare una differente stratificazione dei problemi e a mettere a punto forze, strumenti, obiettivi e contenuti meglio adeguati alle richieste di una società qualitativamente migliore.

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Quel che serve è dunque una precisa analisi, teoricamente fondata, della funzione della politica locale dei servizi del nostro Paese (in questo assai diverso dagli altri Paesi europei), fino a coglierne le valenze in grado di offrire sbocchi credibili e generalizzazioni valide per tutti. Quel che serve, in altri termini, è la capacità di trasformare in scienza le esperienze e le sperimentazioni attuate in questi anni nelle scuole comunali dell’infanzia, in modo che l’enorme articolazione di linguaggi, strumenti e soluzioni si traduca anche in una pratica aggregante traducibile tanto in strumenti di lavoro generalizzabili quanto in modalità serie di formazione professionale e culturale.
Non bastano – le “cecità” di molti interventi ne sono la riprova – i discorsi sul “buon servizio” né le stucchevoli descrizioni spontaneistico-parapolitiche e nemmeno le classificazioni secondo la manualistica di maniera (il modello bruneriano, il modello rogeriano, e così via). Occorre cogliere e diffondere le conquiste di contenuto esistenti nella realtà operativa, senza per questo separare le conquiste dalle nuove contraddizioni, nate appunto dall’aver spostato su un terreno più avanzato la gestione del sapere. Tra l’altro, la carenza di riflessione teorica contribuisce (o ne è essa stessa il prodotto?) a mantenere separati gli interventi secondo gli istituti, i settori, gli assessorati ed a ritardare la nascita di quel progetto territoriale complessivo, in grado di assicurare coerenza alle esperienze quotidiane e creare un tessuto in cui l’identificazione posltiva in valori e strumenti costituisce un’arma efficace contro i processi di disgregazione attualmente in atto.

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A chi spetta fare ciò? Purtroppo, nonostante i sommovimenti del ‘68, permane nel Paese una percezione idealistica del significato dell’azione culturale, per cui gli “intellettuali”, “l’altra cultura” non si impegnano più di tanto rispetto a quei problemi concreti e specifici attinenti ai servizi sui quali l’Ente locale si è andato impegnando. E anche per l’Università non è facile ipotizzare – nonostante qua e là ci siano segni di una volontà nuova rispetto alla tradizione – un ruolo credibile.
E pur tuttavia occorre fare appello a tutte le forze disponibili, a partire proprio da quegli operatori che in tutti questi anni hanno reagito con sorprendenti capacità creative ai problemi che la costruzione di servizi nuovi imponeva. Quel che serve, comunque, è comprendere che non sono in ballo tanto le scuole materne, quanto piuttosto quel nuovo modo di produrre scienza che ha costituito e costituisce l’elemento maggiormente caratterizzante la gestione dei situazione servizi di molte amministrazioni locali. Per questi motivi non è demagogico l’invito a partire dagli operatori. Demagogico sarebbe, invece, limitarsi a loro e non comprendere che la massima unità nelle ipotesi di intervento esige la massima articolazione di istituti, forze, associazioni, iniziative per realizzarle.

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Sono questi appena alcuni dei motivi che postulano ben diverse basi per awiare una discussione seria della 444. Le esperienze della scuola comunale sono anche esperienze dello Stato, di quella scuola pubblica che – nonostante questo Stato – in Italia ha ormai una storia fatta di scienza, di democrazia, di professionalità.
Quanto questa esperienza abbia consentito di capire che si può fare una scuola diversa, finalmente adeguata alle esigenze contestuali del bambino e di una società meno ingiusta, costituisce un patrimonio evidentemente non acquisito da parte di tutte le forze democratiche.
Lavorare perché questa consapevolezza maturi al più presto è diventato più che mai necessario ed urgente, anche per questa Rivista.
Sarà così più facile comprendere che la riforma della scuola di base non è problema risolvibile con alchimie aritmetiche, da giocarsi magari sulla base dei tassi di natalità o delle quote di insegnanti attualmente in servizio.
Si tratta di un intervento che tocca la qualità della vita di tutti. Lo capirono, quindici anni fa, i comuni democratici. Perché non trasferire a tutti quella lungimirante consapevolezza?


mercoledì 25 giugno 2014

PENSIERI IN LIBERTÀ di Cinzia Mion. Anticipo a 5 anni. Ancora?

Cinzia Mion è Psicopedagogista e Psicomotricista; già dirigente scolastico e membro della Commissione Ministeriale Pari Opportunità di Roma, collabora con varie università. In questo contributo affronta il tema dell'accesso alla scuola primaria anticipato a 5 anni. 

E pensare che sono passati già parecchi anni dal libro di Neil Postman “La scomparsa dell’infanzia”, cosa dovremmo dire allora oggi che la Ministra di turno torna alla carica con la proposta di “decapitare” la scuola dell’infanzia di un anno per proporre tout court l’anticipo a 5 anni della scuola primaria?

lunedì 23 giugno 2014

Andate e ritorni. Le questioni che rimangono sempre e ostinatamente aperte. Qualche idea e approfondimento.

Nell'ultimo numero della rivista Bambini potete trovare un approfondimento specifico sul tema delle "didattiche". Nell'articolo di apertura abbiamo segnalato diversi articoli e spunti, che vi offriamo qui di seguito per approfondire i temi aperti.

mercoledì 11 giugno 2014

Interrogarsi per comprendere: "À CIEL OUVERT". Un docufilm di Mariana Otero

Il titolo, "À CIEL OUVERT", spiegato dalla regista. 

Nel numero di Maggio della Rivista Bambini abbiamo pubblicato un box informativo che parlava del file "A Ciel Ouvert", di Mariana Otero. In questo articolo la regista spiega il titolo e ci guida alla "lettura" dei contenuti della sua opera, che potete trovare a questo link.