mercoledì 11 giugno 2014

Interrogarsi per comprendere: "À CIEL OUVERT". Un docufilm di Mariana Otero

Il titolo, "À CIEL OUVERT", spiegato dalla regista. 

Nel numero di Maggio della Rivista Bambini abbiamo pubblicato un box informativo che parlava del file "A Ciel Ouvert", di Mariana Otero. In questo articolo la regista spiega il titolo e ci guida alla "lettura" dei contenuti della sua opera, che potete trovare a questo link.



«Contrariamente a quello che succede per gli altri miei film, ai quali trovo il titolo solo il giorno prima di decidere i titoli di testa; questa volta ho saputo fin da subito che il titolo sarebbe stato quello. 

Perché mentre parlavo con non ricordo quale operatore, mi ha citato una frase di Lacan che descriveva le persone affette da psicosi come persone con un “inconscio a cielo aperto”. Questa frase mi piacque molto e volevo utilizzarla nel film, anche nelle riprese cinematografiche, perché mi sembrava anche che i bambini avessero un rapporto estremamente importante con la natura, la luce, il cielo e l’immensità. Sembrava che ci fosse qualcosa che li intriga in questo e allora io ho filmato anche il cielo che li preoccupa e piace molto anche a me. [...] Nel film queste riprese sono come dei momenti di suspense, in cui si smette di pensare. »


SINOPSI
Alysson osserva il suo corpo con diffidenza.
Evanne si stordisce fino a cadere per terra.
Amina non riesce a esprimersi correttamente.
Al confine franco-belga esiste un luogo fuori dal comune dove ci si prende cura di questi bambini con difficoltà psicologiche e sociali. Giorno dopo giorno, gli adulti cercano di capire l’enigma che ognuno di loro rappresenta e inventano, per ciascuno, ma senza mai imporgliele, delle soluzioni che li aiuteranno a vivere più sereni. Ripercorrendo le storie di questi bambini, « A ciel ouvert » ci introduce nella loro visione del mondo del tutto singolare.
  
L’ORIGINE
«Il campo d’azione della cosiddetta “follia” mi ha da sempre intrigato, affascinato, se non addirittura spaventato, e allo stesso tempo ho sempre confusamente pensato che vi si potesse capire qualcosa e, ancor più, che la follia potesse insegnarci qualcosa. Dopo « Entre nos mains » ho voluto confrontarmi a questa diversità contro la quale il pensiero razionale sembra doversi urtare.
Mi sono dunque recata in diverse strutture e istituti per « disabili mentali ». Durante questi lunghi sopralluoghi, ho scoperto alla frontiera franco-belga, un istituto medico-pedagogico per bambini quasi unico nel suo genere in tutta Europa, le Courtil.
L’idea iniziale di questa istituzione è che i bambini con sofferenze psichiche non sono dei disabili ai quali manca qualcosa per essere come gli altri. Al contrario, al Courtil, ogni bambino viene considerato dagli operatori sociali della struttura prima di tutto come un enigma, un soggetto che possiede una struttura mentale singolare, cioè una maniera originale di percepire se stesso, di pensare il mondo e di rapportarsi all’altro. Gli operatori, abbandonando ogni pregiudizio e ogni sapere prestabilito, cercano di capire la peculiarità di ogni bambino per poter aiutare ciascuno di loro a inventare la propria soluzione, quella che potrà permettergli di trovare il suo posto nel mondo e viverci serenamente.
In questo modo, ho incontrato quindi una maniera straordinaria di pensare e di vivere con la follia e un’istituzione che mette al centro del suo lavoro l’individuo e la sua peculiarità.
Più in generale, ho riscontrato un modo di accostarsi all’altro che mi ha intimamente toccato e che, lo spero, attraversa il film da cima a fondo: qualunque sia l’altro, esso deve prima di tutto essere visto come un mistero senza eguali.»

LE RIPRESE
«Nonostante i sopralluoghi durati quasi un anno, quello che vi avevo visto, le storie sui bambini che mi avevano raccontato; nel momento in cui ho cominciato le riprese, non avevo fatto molti passi avanti sui possibili « scenari ». Tutto sarebbe stato inevitabilmente diverso. In un luogo come le Courtil, dove ad essere al centro dell’attenzione sono l’individuo e le sue invenzioni, le storie di ogni bambino sono imprevedibili. Per di più, l’importanza degli avvenimenti si coglie, si valuta bene dopo che questi si sono verificati, nell’ottica dell’evoluzione del bambino, cioè « a posteriori » .
Al Courtil si può dire che le storie si scrivano a ritroso. Il che è sicuramente disorientante ... persino vertiginoso. Certamente durante i miei sopralluoghi avevo affinato il mio sguardo, vedevo meglio di quando ero appena arrivata al Courtil. Ma la mia capacità di fare delle previsioni si fermava lì. Avevo una piccola lunghezza di vantaggio sugli avvenimenti che mi avrebbe permesso di filmarli più o meno precisamente, ma non potevo prevedere oltre.
Ho fatto tre mesi di riprese in una concentrazione assoluta, con la cinepresa attaccata a me otto ore al giorno e la sensazione che ogni istante potesse essere prezioso.
Per riuscire a filmare bene le scene, dovevo dimenticare i miei riferimenti abituali che mi permettono di misurare l’importanza di un avvenimento e quello che vi si rappresenta. Al Courtil questi riferimenti non erano necessariamente giusti e avrebbero potuto farmi sfuggire l’essenziale. Per conservare questa acutezza di sguardo, per essere giusta nella ripresa di ogni scena, dovevo essere quotidianamente presente accanto ai bambini e agli operatori. Non riprendevo tutto, ma restavo sempre con loro, sul chi vive.
Man mano che riprendevo, percepivo l’importanza di alcune scene che completavo allora con altre scene, le quali a loro volta assumevano un’importanza diversa la settimana dopo. In realtà usai una modalità di ripresa atipica, appassionante e molto diversa da tutto ciò che avevo potuto sperimentare fino a quel momento.

I BAMBINI E LA CINEPRESA
« Per quanto riguarda i bambini, sapevo da prima di cominciare le riprese che la loro relazione con la cinepresa sarebbe stata molto particolare, in linea con la loro maniera di relazionarsi all’altro, al corpo e al mondo.
Proprio perché sapevo che la loro relazione con la cinepresa, cioè con lo sguardo, poteva essere centrale, ho scelto, nelle scene con i bambini, di lavorare sola, senza il mio ingegnere del suono. Ho deciso di portare la cinepresa legata al mio corpo grazie ad un sistema di imbracatura leggero e flessibile, ero diventata un corpo-cinepresa. E anche quando non filmavo, indossavo tutto l’armamentario.
Fin dall’inizio delle riprese, per i bambini, o né io, né la cinepresa esistevamo, o essi si rivolgevano a me come se non ce l’avessi addosso, o ancora si interessavano solo a questa. In un certo modo, per loro non c’era fuoricampo. Ecco perché, all’occasione, le interazioni dei bambini con me e con la cinepresa hanno potuto essere commentate nelle riunioni e nelle supervisioni, alla stregua di ogni altro elemento degli atelier.
In ogni caso, non c’era in questi bambini né narcisismo, né fastidio, né vergogna, né timidezza: la loro immagine, la rappresentazione di questa, gli importava poco. Era il loro rapporto con l’altro o con lo sguardo che era direttamente in gioco, che poteva aggredirli o, al contrario, tranquillizzarli.
Prendiamo ad esempio Evanne. Per lui, all’inizio delle riprese, la cinepresa non esisteva ed era come se io fossi trasparente. Poi, poco a poco, nello stesso tempo in cui lui cambiava, in cui l’ « altro » cominciava a prendere consistenza per lui, ho visto che incominciava a vedermi, a vedere la cinepresa. Così, la prima volta che ha avuto uno « sguardo cinepresa » ero molto commossa: raccontava un cambiamento in Evanne, aveva un valore molto diverso da tutti gli altri sguardi cinepresa che avevo potuto filmare fino a quel momento.
Per Alysson, che durante le riprese non aveva quasi fatto attenzione a me, la mia presenza silenziosa di camerawoman è diventata molto importante. Gli operatori e io abbiamo avuto l’impressione che la cinepresa riunisse il corpo di Alysson e le permettesse di metterlo in movimento. È successo qualcosa di molto forte che mi ha fatto pensare al rapporto che gli attori possono intrattenere con la cinepresa, non nel desiderio di essere visti, che non è sicuramente fondamentale, ma relativamente a una funzione più essenziale: lei li riunisce. La relazione con la cinepresa era qui molto forte, molto « significativa », ecco perché molto logicamente essa ha preso posto nel montaggio finale del film. »

IL MONTAGGIO
« Alla fine, ho filmato 180 ore. Con la montatrice Nelly Quettier abbiamo montato le sequenze, personaggio per personaggio, cercando di mettere in evidenza la particolarità di ogni bambino e la sua evoluzione. Dopo quattro mesi di montaggio, avevamo quattro ore che riunivano delle scene costruite a partire dai quattro personaggi principali: Jean-Hugues, Alysson, Evanne e poi Amina. In seguito, bisognava organizzare il film incrociando queste « storie » e mantenendo l’esistenza di fattori come lo spazio e il tempo, anche se la costruzione del film non era unicamente cronologica.
Bisognava, attraverso il montaggio, far capire la follia, in un modo allo stesso tempo sensitivo, emotivo e intellettuale, costruendo assieme ai bambini una sorta di drammaturgia che doveva integrare un andirivieni costante tra la quotidianità e le riunioni. Bisognava evitare una sistematicità conservando sempre l’emozione legata ai personaggi. L’insidia sarebbe stata farlo diventare didattico: il film doveva restare un’esperienza e non una lezione. Piuttosto che fornire delle spiegazioni, l’essenziale per me era far vivere allo spettatore l’esperienza della comprensione, cioè persino l’affiorare di uno sguardo. Il film non poteva lesinare sul fattore tempo: prima di tutto quello dell’interrogativo e poi il tempo della comprensione. »



traduzione a cura di Cristiana Sartori

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