mercoledì 11 marzo 2015

Pensieri senza frontiere - febbraio 2015. QUALCOSA DI TE CHE NON SO.

di Stefania Cannalire


Educatrice professionale e psicologa junior

Nell’ottobre 2013 decisi di partecipare a un progetto educativo di circo sociale in Bolivia. Un po’ confusa rispetto a ciò che mi aspettava, partii credendo di essere pronta ad affrontare qualsiasi cosa, di essere completamente aperta e disponibile ad adattarmi al diverso ma, ho scoperto, che non era proprio così!




Superato l’iniziale spaesamento, cominciai a buttarmi nel lavoro che ero chiamata a svolgere: sostegno scolastico, insegnamento dell’inglese e della danza a bambini di strada tra i 5 e i 15 anni. Tutto era stato programmato e pianificato, eppure, ogni volta che mi trovano nel vivo della situazione educativa, non riuscivo nemmeno a iniziare la lezione. Trovavo molto difficile comunicare con quei bambini, attirare la loro attenzione, e dopo poco non vedevo l’ora di scappare per il disagio che ciò mi provocava. Nonostante il mio impegno, era come se le mie parole e i miei modi non li colpissero, non li ingaggiassero. Mi sentivo diversa, appartenente a un mondo lontano e non riuscivo a trasmettere il mio approccio alle cose.
Per risolvere il problema decisi di prendermi del  tempo per rileggere i testi di Paulo Freire che mi avevano guidata nella scelta di partire, in particolare Pedagogia degli oppressi. In questi scritti Freire parla delle qualità che deve possedere l’educatore e, tra tutte, quella che mi colpì di più fu l’amore: Freire mi stava dicendo di amare i miei allievi anche se io non piacevo loro.
Riflettendoci, capii che solo l’amore può stimolare il reale interesse verso l’altro, la curiosità sincera per ciò che pensa, sente e vive... Iniziai così a ricercare dentro di me questo sentimento e provai a chiedere ai bambini di insegnarmi alcune delle cose che loro sapevano. Imparai tantissimi esercizi di giocoleria, chiesi loro di correggermi, osservarmi, spiegarsi di nuovo. Cercai di adattarmi al loro metodo con l’obiettivo di creare un legame, a prescindere da ogni progetto pensato e risultato atteso: senza questo passo sarebbe stato impossibile apprendere qualsiasi cosa.
Capii che integrarsi richiede un sincero sforzo nel mettere tra parentesi ciò che si ritiene giusto. La cultura in cui sono cresciuta mi stava influenzando senza che me ne accorgessi, esprimendosi con quella dominanza, di cui parla Freire, che squalifica il diverso. Nella mia testa avevo chiaro come dovesse essere una città, un centro educativo, una lezione, un bambino e, nonostante sapessi che avrei dovuto aspettarmi altro, una parte di me non poteva accettarlo perché non riusciva a riconoscersi al di fuori dei propri schemi.
Ciò che ho imparato da questa esperienza è la capacità di fermarmi di fronte a chi riconosco diverso da me e a rievocare la consapevolezza che integrare non vuol dire aggiungere ma ricollocarsi dentro a nuovi orizzonti.
Nel centro in cui lavoro, mi alleno a rendere la mia presenza incisiva ma silenziosa, in modo che non si imponga con i suoi canoni ma sperimenti lo sguardo dell’altro. E chiedo a chi ho di fronte di insegnarmi quello che non so, mi faccio bambina bisognosa di imparare.

Nessun commento:

Posta un commento