mercoledì 29 agosto 2012

Distinguere pubblico e privato è soltanto il sintomo di una falsa coscienza

Fonte: D La Repubblica, 25 febbraio 2012

Quando si apre l'uscio di casa non si entra nella vita privata, per la semplice ragione che nessuna vita è "privata".


Non esiste la vita privata. Non può valere per i rapporti umani il concetto liberista che se un individuo sceglie per il suo meglio allo stesso tempo fa il bene della collettività. La nascita, che avviene dall'unione di due persone che generano una terza, non ha nulla di privato. La vita tra persone è una concatenazione di fatti. Si può vivere tralasciando gli effetti che le proprie azioni provocano sugli altri? Si può ignorare il dolore provocato?  "È la vita", si dirà, io invece credo di no. Non c'è vita se non ci si preoccupa degli altri. Se tutto è lecito in nome della libertà individuale io non voglio essere un uomo libero.  Non posso accettare queste regole, già dominanti ovunque, anche nei rapporti umani. La concezione del fridman, dell'uomo che mette al primo posto la libertà, non può esistere, tantomeno in amore, in coppie separate o divorziate, in coppie con figli, in famiglia. "È la mia vita", si urla in cucina in preda alla rabbia per affermare il diritto all'azione quando qualcuno mostra disaccordo. No, non vale. In amore non può valere.  Quando si è provato ad andare oltre se stessi, quando è venuto un figlio, quando lo si è progettato abbracciati sotto una coperta, non puoi più ritenere la tua libertà al di sopra di tutto.

Lettera firmata

Risponde Umberto Galimberti

La nozione di "vita privata" nasce come conseguenza del primato dell'individuo nei confronti della società. Un primato fondato e diffuso in Occidente dal cristianesimo che, dopo aver introdotto il concetto di "anima", intesa come principio dell'identità individuale, assegna alla salvezza dell'anima, che si raggiunge individualmente e non collettivamente, il primato rispetto a tutti gli altri scopi della vita: "Porro unum est necessarium serbare animam (l'unica cosa davvero necessaria è salvare l'anima)".
Prima dell'avvento del cristianesimo, come riferiscono gli antropologi, in tutte le popolazioni vigeva il principio del primato della comunità rispetto ai singoli individui, primato che Platone e Aristotele teorizzano sulla base del fatto che, essendo l'uomo un animale sociale (zõon politikón), non si è uomini se non in quanto membri di una comunità (pólis). Ciò comporta una perfetta coincidenza tra etica e politica che verrà spezzata dal cristianesimo, per il quale i percorsi etici che conducono alla salvezza dell'anima individuale non coincidono necessariamente con le regole che una comunità si assegna. Si consuma così la separazione tra individuo e società. All'individuo il compito di conseguire la propria salvezza e alla società il compito di rimuovere gli ostacoli che si frappongono a questa realizzazione. In realtà non c'è alcuna azione individuale che non abbia effetti sociali. Quando un medico, ad esempio, appellandosi alla propria coscienza individuale, fa obiezione di coscienza, si fa carico anche delle conseguenze della sua scelta nei confronti del paziente a cui nega un atto medico? Davvero la sua coscienza individuale è un tribunale supremo e inappellabile? E che tipo di coscienza è, quella che limita la propria responsabilità al nucleo di credenze a cui si aderisce? La possiamo ancora chiamare "coscienza", quella che non si fa carico delle sorte che gli altri subiscono come effetto delle azioni o delle omissioni promosse da quella coscienza? L'interesse privato di chi non paga le tasse non ha forse ricadute sull'interesse collettivo? Con le loro liti interminabili, i coniugi che si separano o divorziano, con frequente strumentalizzazione dei figli, si fanno carico di quell'azione che un giorno li ha portati a generare, oppure il loro bisogno di autorealizzazione personale mette in secondo piano la responsabilità della crescita serena dei loro figli? Come lei dice, non c'è proprio nulla di "privato" nella vita degli uomini, a meno di non intendere la libertà personale come un diritto di revocabilità di tutte le scelte. Un concetto, questo, oggi molto diffuso, che fa coincidere la libertà con l'assoluta irresponsabilità nei confronti di tutte le decisioni di volta in volta assunte nella vita. "Responsabilità" significa "rispondere" degli effetti delle nostre azioni e non solo delle intenzioni che le hanno promosse, perché le intenzioni sono strettamente personali e private, ma gli effetti delle azioni promosse da quelle intenzioni sono inevitabilmente pubbliche e sociali. E non rendersene conto, oltre agli effetti disastrosi che può determinare, è comunque sintomo di una falsa coscienza.

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