mercoledì 26 febbraio 2014

Portare la politica nel nido: l'educazione per la prima infanzia come pratica democratica

Peter Moss

Unità di Ricerca Thomas Coram - Istituto di Educazione, Università di Londra

Un testo apparso di recente, Ethics and politics in early childhood education, si apre con le seguenti parole:
Questo libro parla di una possibilità per le istituzioni per l'infanzia e per i ragazzi… La possibilità è che tali istituzioni possano essere concepite innanzitutto come fori, spazi o luoghi di pratica etica e politica (Dahlberg e Moss, 2005, pp. 1-2).


Il presente intervento analizza parte di questa proposta: la possibilità che le istituzioni per l'infanzia e per i ragazzi possano essere soprattutto luoghi di pratica politica, nello specifico di pratica politica democratica, e si concentra su un gruppo di istituzioni, quelle rivolte ai bambini al di sotto dell'età prevista per la scuola dell'obbligo. L'argomentazione, però, si applica anche ad altri tipi di servizi, per esempio le scuole per i bambini più grandi. Il termine “educazione per la prima infanzia” viene inoltre usato per fare riferimento a un'ampia gamma di istituzioni che offrono servizi di educazione e cura per i bambini inclusi i nidi, le scuole materne, i giardini d'infanzia, i servizi prescolastici e i centri per l'infanzia e la famiglia. In altri termini, l' “educazione” è intesa come un concetto di vasta portata che racchiude l'apprendimento, la cura e l'educazione – “l'educazione nel suo significato più ampio”.
Quando dico che c'è una possibilità che le istituzioni per l'infanzia e per i ragazzi possano essere, innanzitutto, luoghi di pratica politica democratica, uso il termine “possibilità” per sottolineare il fatto che questa concezione è una scelta che noi, in quanto cittadini, possiamo fare. Non c'è nulla di inevitabile: ci sono vari modi in cui possiamo immaginare e dare vita a questi servizi: essi possono essere concepiti come luoghi di pratica democratica, per esempio, ma esistono altre possibilità.

Le istituzioni possono essere intese, infatti, anche come luoghi soprattutto di pratica tecnica: luoghi nei quali la società può applicare ai bambini potenti tecnologie umane per produrre dei risultati. Da questo punto di vista, appartengono a quella che Allan Luke descrive come una «visione rampante, a livello internazionale, della scuola, dell'insegnamento e dell'apprendimento basati esclusivamente sull'efficacia sistematica della produzione tecnica misurabile di capitale umano (Luke, 2005, p. 12). Oppure, per fare un altro esempio, possono essere concepite come attività economiche in competizione tra loro attraverso l'offerta di prodotti ai genitori-consumatori all'interno di un mercato privatizzato.
Entrambe queste concezioni sono molto importanti in Inghilterra. La domanda chiave rivolta all'educazione per la prima infanzia è prettamente tecnica: “cosa funziona?” Eppure, il recente piano d'azione del governo per implementare la strategia decennale per la cura dell'infanzia si basa esplicitamente su un approccio di mercato (Dipartimento inglese per l'educazione e le abilità/Dipartimento per l'impiego e le pensioni, 2006a). Esso parla del bisogno di «sviluppare in tutte le aree un prospero mercato per l'infanzia che risponderà alle necessità dei genitori»; di «perseguire degli obiettivi attraverso il mercato», del modo in cui le autorità locali dovranno «svolgere un ruolo attivo nella comprensione dei meccanismi di funzionamento del mercato locale per l'infanzia» e di aiutare «il mercato a funzionare in modo più efficiente». Non si fa alcun riferimento alla “democrazia”.
Le argomentazioni a favore della pratica democratica
Perché la pratica democratica è così importante, in genere e nell'educazione per la prima infanzia? La tesi può essere esposta in poche parole. La partecipazione democratica rappresenta un criterio importante della cittadinanza: permette agli adulti e ai bambini di prendere parte, insieme ad altri individui, all'assunzione di decisioni che si ripercuotono su di loro, sui gruppi ai quali appartengono e sulla società più ampia. Rappresenta, inoltre, uno strumento per resistere al potere e alla volontà di governare e alle forme di oppressione e ingiustizia che nascono dall'esercizio del potere non limitato da alcun vincolo. In ultimo, ma non in ordine di importanza, la democrazia crea delle condizioni favorevoli alla nascita della diversità. Facendolo, offre il miglior ambiente possibile nel quale possano svilupparsi un nuovo pensiero e una nuova pratica.
La tesi della preminenza della pratica politica democratica nelle istituzioni per la prima infanzia è resa più pressante, secondo il mio modo di vedere, da due evoluzioni oggi evidenti in molti paesi: primo, assistiamo alla crescita dell'interesse politico per l'educazione per la prima infanzia, interesse che ha determinato lo sviluppo dei servizi. La questione di quale pensiamo sia il significato delle istituzioni per la prima infanzia e di quale sia il loro scopo sta diventando, perciò, molto stringente.
In particolar modo nel mondo anglofono la risposta – il fondamento logico alla base dell'azione – è strettamente tecnica e consumistica. Come già accennato, le istituzioni per la prima infanzia vengono molto spesso concepite come luoghi per governare i bambini attraverso l'uso di tecnologie umane sempre più potenti e come fornitrici di beni da commercializzare in un mercato dell'infanzia. Questa concezione dei servizi per la prima infanzia è stata prodotta da quello che Dahlberg e Moss (2005) hanno definito discorso anglo-americano, un discorso che è strumentale nella razionalità, tecnico nella pratica e imbevuto di certi valori: scelta individuale e competitività, certezza e universalità. Il discorso presenta un'altra caratteristica che contrasta con l'idea di pratica democratica: è intrinsecamente totalizzante. Non riesce a concepire il fatto di rappresentare probabilmente solo un modo di vedere e pensare, e che potrebbero esistere altri modi di praticare e valutare la prima infanzia, che ci potrebbe essere più di una risposta corretta a ogni domanda; non è consapevole di rappresentare, infine, solo una delle moltissime prospettive.
Se questo discorso si limitasse al mondo anglofono, la questione sarebbe seria. Ma le sue aspirazioni vanno oltre: è sempre più dominante ovunque, come si capisce dalla diffusione del suo vocabolario preferito, di termini come “qualità” e “risultati”. È un esempio di quella che Santos (2004) definisce “globalizzazione egemonica”, cioè la “globalizzazione riuscita di un particolare discorso locale e culturalmente specifico che fa dichiarazioni di validità universale e “localizza” tutti i discorsi rivali» (p. 149). Ciò che consente a questo discorso di aspirare al dominio globale è la diffusione della lingua inglese e dei valori e delle convinzioni neoliberali.
Il neoliberalismo cerca di depoliticizzare la vita, di ridurre ogni cosa a questioni di valore e calcolo monetario, di gestione e di pratica tecnica. Preferisce le domande tecniche a quelle critiche e, sotto la sua influenza, stiamo assistendo all'emergere di quella che Clarke definisce “politica managerializzata” in uno “Stato managerializzato”:
Il problema che lo Stato manageriale si pensa debba risolvere nasce dalle contraddizioni e dai conflitti nel campo politico, economico e sociale. Ma quella a cui abbiamo assistito è la managerializzazione di queste contraddizioni, che sono ridefinite in termini di “problemi da gestire”. Termini quali “efficienza” ed “efficacia”, “performance” e “qualità” depoliticizzano tutta una serie di questioni sociali… e così facendo spostano le scelte politiche e della politica all'interno di imperativi manageriali (Clarke, 1998, p. 174).
Questo ci porta alla mia seconda argomentazione a sostegno dell'attuale importanza della pratica democratica per le istituzioni per la prima infanzia. Questo processo di depoliticizzazione della vita pubblica può essere visto come parte di un processo più ampio: la democrazia o, dovrei dire, le istituzioni e le pratiche consolidate della democrazia rappresentativa, sono in uno stato di deterioramento. Sempre meno persone esercitano il diritto di voto, i rappresentanti eletti godono di scarsa stima e intere sezioni della comunità si sentono estranee alla politica dominante, mentre altre hanno un atteggiamento cinico o disinteressato; nel frattempo, le forze politiche non democratiche stanno diventando sempre più forti. Nonostante ciò, non tutto è perduto: esistono motivi di speranza. L'alienazione dalla politica democratica più tradizionale e formale – politici, partiti politici e istituzioni politiche – è bilanciata da un interesse e da un impegno crescenti per altre forme di politica democratica, incluso l'impegno in prima persona in movimenti attivi su questioni specifiche come l'ambiente e la globalizzazione.
La sfida consiste sia nel rivitalizzare la politica democratica tradizionale o formale, sia nello sfruttare l'interesse per forme alternative di politica democratica attraverso lo sviluppo di nuovi luoghi e nuovi soggetti per la crescita della pratica democratica – senza trascurare le istituzioni per la prima infanzia e le questioni fondamentali per la vita quotidiana dei bambini e degli adulti che partecipano a tali istituzioni.
La democrazia su più piani
La prima parte del titolo di questo articolo fa riferimento alla necessità di “portare la politica nei nidi”. La seconda parte, però, “l'educazione per la prima infanzia come pratica democratica”, implica una pratica democratica su moltissimi piani: non solo quello istituzionale, il nido, ma anche quello nazionale o federale, quello regionale e quello locale. Ciascun piano è responsabile di determinate scelte: a questo punto è importante chiarire che uso il termine “scelta” per indicare il processo democratico di assunzione collettiva delle decisioni per riscattarlo dall'uso neoliberale della “scelta” come processo decisionale di consumatori individuali. Nelle parole di un recente rapporto sulla democrazia britannica – il Power Inquiry ( Inchiesta sul potere ) :
Non crediamo che il consumatore e il cittadino siano la stessa cosa, come la nuova tecnocrazia guidata dal mercato sembra presumere. I consumatori agiscono come individui e prendono delle decisioni basandosi soprattutto sul modo in cui una questione influenzerà loro stessi o le loro famiglie. La cittadinanza implica l'appartenenza a una collettività nella quale le decisioni vengono prese non solo nell'interesse dell'individuo, ma anche della collettività nel suo insieme o di una parte significativa della collettività (Power Inquiry, 2006, p. 169).
Le scelte compiute ad ogni livello dovrebbero essere democratiche e una conseguenza della pratica politica democratica. Ma ciascun livello (o piano) dovrebbe sostenere anche la pratica democratica a livelli più locali, garantendo che questi ultimi possano prendere decisioni importanti e siano aiutati a farlo – in altre parole creando uno “spazio democratico” e le condizioni per una pratica democratica attiva.
In cosa consiste lo spazio democratico a livello nazionale o federale? Quali scelte democratiche dovrebbero essere fatte in questo contesto? Il compito è rappresentato dalla necessità di fornire un quadro di riferimento nazionale di diritti, aspettative e valori che esprimano obiettivi e convinzioni nazionali concordati democraticamente, oltre che di creare le condizioni materiali per rendere questi ultimi possibili e consentire agli altri livelli di concretizzarli e di praticare la democrazia. Tale quadro di riferimento deve essere chiaro, ma anche solido, senza soffocare la diversità regionale o locale. Per fare qualche esempio, significa: un diritto di accesso chiaro ai servizi per i bambini in quanto cittadini (nella mia opinione dai 12 mesi di età in poi) combinato a un sistema di finanziamento che consenta a tutti i bambini di esercitare i propri diritti; una dichiarazione inequivocabile che i servizi per la prima infanzia rappresentano un bene pubblico e una responsabilità pubblica, non un prodotto privato; una cornice che definisca valori e obiettivi di ampio respiro lasciando spazio all'interpretazione locale; una politica per la prima infanzia pienamente integrata, la responsabilità della quale sia di un solo dipartimento di governo; un personale educativo ben preparato e ben pagato (del quale almeno la metà laureato) per tutti i bambini; infine, politiche attive per la riduzione della povertà e della diseguaglianza.
Qui si può tracciare un confronto interessante tra il mio paese, l'Inghilterra, e i paesi scandinavi. Sin dal 1997 il governo inglese ha preso la questione della prima infanzia molto più seriamente di quanto fatto in precedenza. Ci sono stati molti sviluppi importanti, inclusa la delega della responsabilità di tutti i servizi per la prima infanzia al Dipartimento per l'Educazione e lo sviluppo dei Centri per l'Infanzia, una forma di servizio integrato. È stato introdotto anche un programma di studi.
Ma siamo ancora ben lontani dal tipo di quadro di riferimento al quale abbiamo accennato sopra e che è adottato dai paesi scandinavi: quanto fatto non sostiene ancora in modo adeguato la pratica democratica. Il programma esistente per i bambini dai tre ai cinque anni, e si collega a più di 60 obiettivi di apprendimento precoce (QCA, 2000). Un nuovo programma che dovrà riguardare i bambini dalla nascita ai cinque anni è stato pubblicato come bozza ed è in fase di revisione (Dipartimento inglese per l'educazione e le Abilità/Dipartimento per l'impiego e le pensioni, 2006b). Ancora una volta è lungo, dettagliato e prescrittivo. Contiene, come calcolato da un commentatore americano, più di 1500 consigli specifici per gli insegnanti, alcuni sotto forma di direttiva, altri che puntano a determinate tappe fondamentali dello sviluppo a cui il personale dovrebbe prestare attenzione. Invece di principi, valori e obiettivi di ampio respiro aperti all'interpretazione da parte di professionisti affidabili, come avviene nei paesi scandinavi, il programma in prima stesura arriva come un manuale per tecnici: non crea nessuno “spazio democratico” e non offre incoraggiamento alcuno alla pratica democratica.
C'è un altro contrasto evidente tra il programma inglese e quello dei paesi scandinavi. Wagner (2006) sostiene che la democrazia è fondamentale per il concetto nordico di “buona infanzia” e nota, a sostegno di questa affermazione, che i “documenti politici ufficiali e le linee guida del programma in tali paesi tengono conto dell'aspettativa importantissima che i servizi prescolastici e le scuole esemplifichino i principi democratici e che i bambini siano partecipanti attivi in tali contesti democratici» (p. 292). Questo punto è illustrato da alcuni esempi nazionali. Proprio in apertura, il programma per il settore prescolastico svedese (solo 19 pagine nella traduzione inglese) discute dei valori fondamentali del settore prescolastico, iniziando il paragrafo con una dichiarazione inequivocabile: «La democrazia rappresenta la base del settore prescolastico. Per questa ragione tutte le attività prescolastiche dovrebbero essere svolte in accordo ai valori democratici fondamentali» (Ministero Svedese dell'Educazione e della Scienza,1998). Il programma norvegese parla di scuole dell'infanzia che gettano «le basi di… una partecipazione attiva alla società democratica». Tale obiettivo trova un'eco nel programma guida nazionale islandese per il settore prescolastico (47 pagine), in cui si afferma che uno dei principali obiettivi dell'educazione prescolastica consiste nel «gettare le basi per consentire [ai bambini] di essere cittadini indipendenti, riflessivi, attivi e responsabili in una società democratica»; più avanti, la guida aggiunge che, «nel settore prescolastico, ai bambini dovrebbero essere insegnate le pratiche democratiche» (Ministero islandese dell'Educazione, della Scienza e della Cultura, 2003, pp. 7, 18).
Eppure, i programmi inglesi sulla prima infanzia già esistenti o di recente delineazione non contengono alcun riferimento alla democrazia, nonostante abbiano un'estensione di gran lunga maggiore di quelli appena citati. Perciò, mentre i programmi dei paesi scandinavi riconoscono esplicitamente la democrazia come valore, in quelli inglesi questo riferimento è del tutto assente. Questi sono esempi lampanti di come il processo decisionale a livello nazionale possa sostenere la democrazia ad altri livelli, attraverso documenti politici che dichiarano in modo inequivocabile che la democrazia è un valore concordato a livello nazionale e creando uno “spazio democratico” a livelli più locali ove sia resa possibile un'interpretazione locale della politica nazionale, in questo caso specifico del programma nazionale. È ovvio che in Inghilterra ci sono molti esempi di singole istituzioni che praticano la democrazia, ma l'assenza di quest'ultima dai documenti politici nazionali fondamentali riflette la priorità attribuita alla pratica tecnica e alla politica managerializzata e le conseguenze derivanti dall'interpretazione di ampie porzioni dell'educazione per la prima infanzia come attività economiche che vendono dei prodotti.
Passo ora al livello del governo locale. Sono consapevole di omettere il livello del governo provinciale, statale o regionale fondamentale in molti paesi, per esempio Australia, Canada, Germania, Spagna e Stati Uniti. Una discussione esaustiva sulla pratica democratica nel settore della prima infanzia dovrebbe tenere conto di questo livello di governo che si trova tra quello nazionale e quello locale. Questo articolo aggirerà l'argomento non solo per motivi di spazio, ma anche per mancanza di conoscenza personale, provenendo io dal paese più centralizzato d'Europa.
Ho già accennato al fatto che un sistema democratico prevede che ogni livello lasci spazio alla pratica democratica negli altri livelli. Questo significa una forte decentralizzazione verso il livello locale (Power Inquiry, 2006). Cosa implica la pratica democratica nelle istituzioni per la prima infanzia su questo piano?
Alcuni anni orsono ho visitato una città italiana con una ricca tradizione nell'educazione per la prima infanzia. La persona a capo dei servizi di questa città – non , come si potrebbe pensare, Reggio Emilia – ha descritto il lavoro svolto nel corso di 30 anni come «progetto culturale locale per l'infanzia». Questa definizione mi si è impressa nella mente, perché coglie il significato della pratica democratica nella sua condizione migliore e più attiva, nonché i risultati che quest'ultima può ottenere all'interno di un'autorità locale, di una comunità o di una municipalità. Coglie l'idea dell'impegno politico, della partecipazione dei cittadini e del processo decisionale collettivo che può mettere una comunità nella condizione di assumersi la responsabilità dei propri bambini e della loro educazione (nel suo significato più ampio): non solo la responsabilità di offrire dei servizi, ma anche del modo di concepire tali servizi, degli scopi per i quali questi sono stati progettati in quella comunità e della relativa pratica pedagogica. Anche altri comuni italiani (inclusa, ma non solo, Reggio) hanno avviato queste iniziative collettive e democratiche, e senza dubbio esistono esempi del genere in vari altri paesi.
Ci sono modi diversi di interpretare questi progetti locali: come azione utopistica o sperimentazione sociale o, ancora, come ricerca e azione di comunità. Quello che tutte queste definizioni hanno in comune è l'idea del Comune che crea uno spazio per la ricerca e il dialogo democratici dai quali nasce un'idea collettiva del bambino e del suo rapporto con la comunità e si sviluppano la politica, la pratica e la conoscenza a livello locale. Queste ultime, a loro volta, sono sempre soggette alla valutazione democratica e a un nuovo pensiero. Alcune volte tali progetti possono essere incoraggiati attivamente dai livelli del governo nazionale; in altri casi, come in Italia, possono essere resi possibili da un governo nazionale debole e da governi locali con forti tradizioni democratiche, disponibili e capaci di usare lo spazio che è stato messo a loro disposizione per disattenzione, non intenzionalmente.
Il modo in cui i progetti culturali locali per la prima infanzia possono essere favoriti attivamente, di quali altre condizioni abbiano bisogno per svilupparsi e quali strutture e processi potrebbero sostenerli sono tutti argomenti importanti per la ricerca sulla pratica democratica nel settore dell'educazione per la prima infanzia. Non possiamo neppure aspettarci che tali progetti vengano avviati in tutte le aree locali – non è possibile imporli per via legislativa. Anche dove non vengono intrapresi, però, la pratica democratica può svolgere un ruolo importante al livello del governo locale. Le autorità locali dovrebbero avere un compito importante nell'interpretazione dei quadri di riferimento nazionali quali sono i documenti sui programmi. Esse possono affermare l'importanza della democrazia come valore e possono sostenere quest'ultima nel nido; possono favorire anche altre condizioni utili alla democrazia, costruendo attivamente, per esempio, una collaborazione tra i servizi – reti, non mercati, oppure proponendo un archivio della documentazione, l'importanza della quale verrà discussa tra breve.
Infine, voglio prendere in considerazione la pratica democratica nel servizio stesso per la prima infanzia: il portare la politica nel nido – o nell'asilo, nel servizio prescolastico, nel giardino d'infanzia, nella scuola materna, o qualunque altro termine usiamo per descrivere i contesti dell'educazione collettiva per la prima infanzia. Il punto di partenza deve essere il modo in cui immaginiamo, costruiamo e concepiamo questo servizio: cosa pensiamo che sia il nido? Ho già accennato a due concezioni comuni, per lo meno nel mondo anglofono: il servizio per la prima infanzia come recinto all'interno del quale la tecnologia può essere applicata per produrre determinati risultati (la metafora è la fabbrica); e il servizio per la prima infanzia come attività economica che vende un prodotto ai consumatori.
Esistono, però, molte altre concezioni, alcune delle quali sono più produttive per la pratica democratica: parlo soprattutto del servizio per la prima infanzia come foro pubblico nella società civile o come luogo di incontro e di dialogo tra i cittadini dal quale possono nascere molte possibilità, alcune prevedibili, altre meno; infine, come spazio particolarmente produttivo quando i rapporti sono governati dalla pratica democratica. Tale idea è espressa in modo molto chiaro in For a new public education system, una dichiarazione fatta nell'estate del 2005 alla 40 a edizione della Rosa Sensat Summer School di Barcellona: il termine “scuola” è qui usato come termine generico per riferirsi ai servizi per tutti i bambini, sia al di sopra che al di sotto dell'età prevista per la scolarità obbligatoria.
Nel nuovo sistema educativo pubblico, la scuola deve essere un posto per tutti, un luogo di incontro nel senso fisico, sociale, culturale e politico del termine. Un foro o un posto dove incontrarsi e creare delle relazioni, dove gli adulti e i bambini possano conoscersi e impegnarsi per qualcosa, dove possano dialogare, ascoltare e discutere per condividere dei significati: un luogo di infinite possibilità culturali, linguistiche, sociali, estetiche, etiche, politiche ed economiche. Un luogo di prassi etica e politica, uno spazio di apprendimento democratico. Uno spazio di ricerca e creatività, coesistenza e piacere, pensiero critico ed emancipazione (Associació de Mestres Rosa Sensat, 2005, p. 10).
Il servizio per la prima infanzia nel quale la politica democratica, insieme all'etica, rappresenta la pratica fondamentale, crea uno dei nuovi spazi indispensabili per il rinnovamento della democrazia. Propone soprattutto una pratica democratica che non è rappresentativa (attraverso l'elezione di rappresentanti), ma diretta: il governo di tutti. Tale spazio offre delle opportunità a tutti i cittadini, i più giovani e i più grandi (figli o genitori, esperti o politici, o qualsiasi altro cittadino della comunità locale) come, per esempio, la possibilità di partecipare. Gli argomenti ignorati o tralasciati nella politica tradizionale possono diventare, così, i temi della pratica democratica.
Portare la pratica democratica nei nidi significa che i cittadini si impegnano in almeno quattro tipi di attività. Primo: l'assunzione di decisioni riguardo gli scopi, le pratiche e l'ambiente del nido. Secondo: la valutazione del lavoro pedagogico attraverso metodi partecipativi. Nel volume Oltre la qualità nell'educazione e cura per la prima infanzia (Dahlberg, Moss e Pence, 2003), gli autori contrappongono la “qualità” come linguaggio tecnico di valutazione a un linguaggio democratico: “la costruzione di significato”. Terzo: contestare i discorsi dominanti, quelli che Foucault definisce i regimi della verità che tentano di modellare le nostre soggettività e le nostre pratiche attraverso le loro affermazioni di verità universali e i loro rapporti con il potere. Tale attività politica cerca di rendere contestabili i postulati e i valori fondamentali.
Yeatman (1994) si riferisce a questa terza attività come “politica postmoderna” e suggerisce alcuni esempi: una politica dell'epistemologia che contesta l'idea di conoscenza della modernità; una politica della rappresentazione le cui prospettive hanno una propria legittimità; una politica della differenza, infine, che contesta quei gruppi che rivendicano una posizione privilegiata di obiettività rispetto a un argomento oggetto di discussione. Potremmo citare molte altre aree aperte alla politica, aree che vengono ripoliticizzate come soggetti legittimi di dialogo politico inclusivo e di contestazione: l'immagine dell'infanzia, la buona vita e ciò che ci aspettiamo dai nostri bambini; ciò che l'educazione può e dovrebbe essere; il genere nel nido e a casa – questi e molti altri argomenti che possono essere oggetto di impegno democratico nel servizio per la prima infanzia, tutti esempi di politica portata nei nidi.
È attraverso la contestazione dei discorsi dominanti che può emergere la quarta attività politica: l'apertura al cambiamento attraverso la capacità di immaginare delle utopie e di trasformarle in azione utopistica. Perché, come nota anche Foucault, c'è un legame molto stretto tra la contestazione dei discorsi dominanti, il pensare differentemente e il cambiamento: «non appena non è più possibile pensare alle cose come fatto fino a un momento prima, la trasformazione diventa sia estremamente urgente che estremamente difficile e abbastanza possibile».
Le condizioni per la democrazia
È improbabile che il servizio per la prima infanzia come luogo di pratica democratica nasca per caso: richiede intenzionalità, che venga fatta una scelta, e ha bisogno di condizioni che lo favoriscano. Ho già accennato all'importanza dell'immagine del servizio. Ma ci sono altre immagini o concezioni che sono importanti per portare la politica nel nido, per esempio l'idea del bambino, dei genitori e del personale. Il bambino è concepito come un cittadino competente, un esperto della propria vita con opinioni che vale la pena di ascoltare e con il diritto e la competenza per partecipare al processo decisionale collettivo. È inoltre importante riconoscere che i bambini (e gli adulti) hanno cento linguaggi per esprimersi, e la pratica democratica significa capacità di “ascoltare” questi molteplici linguaggi. Anche i genitori vengono visti come cittadini competenti «perché hanno, e sviluppano, la propria esperienza, i propri punti di vista, le proprie interpretazioni e le proprie idee… che sono il frutto della loro esperienza come genitori e cittadini» (Cagliari, Barozzi e Giudici, 2004, p. 30). Il personale adotta quello che Oberhuemer (2005) ha definito «professionalismo democratico» interpretando il proprio ruolo come quello di esperti della democrazia. Sebbene riconoscano di apportare una prospettiva importante e una conoscenza locale fondamentale nel foro democratico, sono consapevoli di non essere custodi della verità e neppure di avere un accesso privilegiato alla conoscenza.
La pratica democratica ha bisogno di alcuni valori da condividere all'interno della comunità del servizio per la prima infanzia, per esempio:
•  Rispetto per la diversità, che si collega all'etica dell'incontro, un'etica relazionale che Dahlberg e Moss hanno messo in primo piano (2005) nella loro discussione sull'etica dell'educazione per la prima infanzia;
•  Riconoscimento dell'esistenza di prospettive multiple e paradigmi diversi – del fatto che alla maggior parte delle domande ci sia più di una risposta e che esistono molti modi di vedere e comprendere il mondo, un punto su cui tornerò in seguito;
•  Accoglienza della curiosità, dell'incertezza e della soggettività – e della responsabilità che queste richiedono da parte nostra;
•  Pensiero critico che, nelle parole di Nikolas Rose, consiste «nell'introdurre un atteggiamento critico nei confronti di quelle cose che nella nostra esperienza attuale sono date per scontate, come se fossero senza tempo, naturali, indiscutibili: nell'opporsi alle massime del proprio tempo, allo spirito della propria epoca, alla corrente della saggezza trasmessa… [consistono] nell'interrompere lo scorrere delle narrative che codificano quell'esperienza e nel destabilizzarle» (Rose, 1999, p. 20).
L'importanza di tali valori per la promozione della pratica democratica è espressa nelle seguenti parole di tre pedagogisti di Reggio Emilia sul tema della partecipazione nelle loro scuole comunali:
La partecipazione si basa sull'idea che la realtà non sia oggettiva, che la cultura sia un prodotto della società in costante evoluzione e che la conoscenza individuale sia solo parziale; infine che, per costruire un progetto, nel dialogo con gli altri all'interno di un quadro di riferimento di valori condivisi, è importante il punto di vista di tutti. L'idea della partecipazione è basata su questi concetti e, nella nostra opinione, lo è altrettanto la democrazia (Cagliari et al., 2004, p. 29).
Oltre che di visioni e valori condivisi, la pratica democratica nei servizi per la prima infanzia necessita di determinate condizioni materiali e di strumenti specifici. Un esempio importante è rappresentato da un personale altamente qualificato e preparato a essere un corpo di professionisti democratici; un altro potrebbe essere rappresentato dal ruolo di alleato critico come quello svolto dal pedagogista dell'Italia settentrionale, educatore esperto che lavora con un piccolo numero di centri per favorire il dialogo e il pensiero critico sulla pratica pedagogica; un terzo esempio è rappresentato dalla documentazione pedagogica che consente di rendere visibili la pratica e i processi di apprendimento, di sottoporli, quindi, al pensiero critico, al dialogo, alla riflessione, all'interpretazione e, se necessario, alla valutazione democratica e all'assunzione di decisioni.
La documentazione pedagogica deve svolgere un ruolo centrale in molti ambiti del servizio per la prima infanzia: valutazione, sviluppo professionale, ricerca e, ovviamente, pratica democratica. Malaguzzi la interpretava sotto questa luce democratica, come spiega il suo biografo Alfredo Hoyuelos:
[La documentazione] rappresenta uno dei concetti chiave della filosofia di Malaguzzi. Ritengo che dietro questa pratica ci sia il concetto ideologico ed etico di una scuola e di un'educazione trasparenti… Emerge anche un'idea politica, e cioè che ciò che le scuole fanno deve avere una visibilità pubblica… La documentazione in tutte le sue diverse forme rappresenta uno straordinario strumento di dialogo, di scambio e di condivisione. Per Malaguzzi rappresenta la possibilità di discutere e dialogare su «tutto con tutti» (insegnanti, personale ausiliario, cuochi, famiglie, amministratori e cittadini… [C]condividere le opinioni attraverso la documentazione presuppone la capacità di discutere di cose reali e concrete – non solo di teorie o di parole sulle quali si può raggiungere un accordo semplice e ingenuo (Hoyuelos, 2004, p. 7).
Anche Carlina Rinaldi parla di documentazione come pratica democratica: «è questa una grande occasione di democrazia, di cultura e di visibilità dell'infanzia, dentro e fuori le scuole, che si alimenta della partecipazione democratica e alimenta una democrazia partecipata» (Rinaldi, 2009, p. 83).
Oggi la documentazione è ampiamente usata sotto varie forme e per vari scopi. Un esempio che conosco bene è l'approccio del Mosaico sviluppato dalla mia collega Alison Clark. Ispirato dalla documentazione pedagogica, l'approccio del Mosaico è stato utilizzato per una grande varietà di scopi, incluso quello di rendere possibile la partecipazione dei bambini nella progettazione di nuovi edifici e spazi all'aperto. Ecco un ulteriore esempio di come la documentazione pedagogica rappresenti uno strumento chiave per la pratica democratica che, in questo caso, consiste nel contributo dei bambini al processo decisionale (Clark e Moss, 2005; Clark, 2005).
È importante tenere bene a mente che la documentazione pedagogica non è un'osservazione del bambino; non è un modo per ottenere un'immagine realistica di quello che i bambini possono fare e neppure una tecnologia di normalizzazione. Non presume mai, per esempio, un obiettivo o una verità esterna sul bambino che possa essere registrata e rappresentata con precisione. Invece fa propri i valori della soggettività e della molteplicità: non potrà mai essere neutra, visto che assume sempre una prospettiva (Dahlberg et al., 1999). Così concepita, come strumento di esplorazione e contestazione di prospettive diverse, la documentazione pedagogica non diventa solo un mezzo per resistere al potere, inclusi i discorsi dominanti, ma anche di favorire la pratica democratica.
La scarsità di tempo ci impedisce di discutere delle altre condizioni e degli altri strumenti della pratica democratica; possiamo solo segnalare quella che mi sembra una questione di fondamentale importanza: il tempo. La pratica democratica nel nido, in realtà ovunque, richiede del tempo – ma il tempo oggi scarseggia, con noi tutti sempre più sommersi di impegni. Un aspetto curioso della politica inglese per la prima infanzia, ma anche per la scuola dell'obbligo, è l'enfasi posta sul “coinvolgimento dei genitori” in un momento nel quale i genitori non sono mai apparsi più impegnati. Così, da una parte la politica sottolinea l'importanza dell'occupazione per i padri e le madri; dall'altra sostiene la rilevanza del coinvolgimento dei genitori nell'educazione dei figli e nei servizi che questi ultimi frequentano. Si configura qui un'interessante tensione – sebbene sia meno rilevante di quanto possa apparire a prima vista, dato che nelle politiche il coinvolgimento è concepito innanzitutto in termini di genitori che rafforzano obbiettivi e traguardi dati per scontati: una concezione del coinvolgimento come pratica democratica critica farà probabilmente aumentare l'esigenza di tempo. Per adesso, serve una riflessione più approfondita sulla questione del tempo e sul modo in cui potremmo ridistribuirlo tra tutta una serie di attività e di rapporti. Ulrich Beck, per esempio, parla di questo aspetto quando accenna al concetto di un «lavoro pubblico» che potrebbe suggerire un nuovo fulcro di attività e un'identità in grado di rinnovare lo stile di vita democratico» (Beck, 1998, p. 60) e suggerisce vari modi di sovvenzionare tale lavoro.
Quattro osservazioni conclusive
Voglio concludere facendo quattro osservazioni sul tema della prima infanzia come pratica democratica – o sulla possibilità che lo diventi. Primo: il fatto di giudicare la democrazia come valore centrale nei servizi per la prima infanzia è, secondo me, incompatibile con la concezione di questi servizi come attività economiche e con l'adozione di un approccio di mercato allo sviluppo del servizio stesso. Le attività economiche, per lo meno quelle detenute da un individuo o da una società, devono ovviamente ascoltare i bisogni dei “propri clienti” e tenere conto dei loro punti di vista; devono poter esercitare persino qualche responsabilità sociale, ma non possono permettere che la pratica democratica sia la pratica principale, perché la loro responsabilità primaria è nei confronti dei titolari o degli shareholder: le decisioni economiche non possono essere prese democraticamente. Allo stesso modo, un sistema di servizi per la prima infanzia basato sulle scelte fatte dai consumatori è fondamentalmente in contrasto con un sistema che riconosce l'importanza del processo decisionale collettivo da parte dei cittadini: «Le decisioni individuali prese tenendo conto dei propri vantaggi o di quelli della propria famiglia non possono sostituire la deliberazione di massa nel settore pubblico – che è un processo assolutamente cruciale in una società democratica e aperta» (Power Inquiry, 2006, p. 159).
Secondo: la democrazia è rischiosa. Può costituire una minaccia non solo per i potenti ma anche per coloro che sono in una posizione di debolezza. Le persone giungono al processo democratico non solo con prospettive diverse, ma anche con interessi e possibilità differenti, perciò è probabile che nasca un conflitto dal quale i deboli potrebbero uscire perdenti. La disuguaglianza può quindi aumentare, non diminuire. Un'argomentazione contro la decentralizzazione, che il governo inglese potrebbe usare anche in difesa di un approccio alla politica altamente centralizzato e prescrittivo, è che una regolamentazione fortemente centralizzata dell'educazione per la prima infanzia sia necessaria per garantire a tutti i bambini un'uguaglianza di trattamento; senza, si spalancano le porte alla disuguaglianza, con il rischio che alcuni bambini abbiano a disposizione servizi molto peggiori di alcuni coetanei (con, oltretutto, quelli che vengono dagli ambienti più poveri che corrono i rischi maggiori). In questo c'è una parte di verità, visto che i motivi a supporto di una minore centralizzazione e di una pratica maggiormente democratica sono più deboli in una società non egualitaria nella quale l'educazione per la prima infanzia e il suo personale sono meno sviluppati e hanno sofferto a lungo del disinteresse pubblico e di scarsi investimenti.
Non esiste una soluzione unica e definitiva a questo dilemma. I rapporti tesi tra l'unità e la decentralizzazione, la standardizzazione e la diversità sono di vecchia data e non risolvibili una volta per tutte: si tratta di un'eterna dialettica, di un rapporto in costante divenire e di una questione politica sempre contestabile. Come suggerito poc'anzi, il rapporto richiede una decisione in base alle condizioni attuali – ma anche a dove vogliamo essere. Anche se si ritiene che la situazione odierna renda necessaria un forte centralizzazione, si potrebbe decidere che non è quella la condizione in cui vogliamo trovarci a lungo termine. La questione riguarda, allora, le condizioni necessarie per muoversi verso una maggiore decentralizzazione e una maggiore democrazia. Questo processo di spostamento dalla centralizzazione alla decentralizzazione è osservabile nella storia dell'educazione per la prima infanzia in Svezia, che si è mossa da un approccio centralizzato e standardizzato a uno fortemente decentralizzato. Anche in questo caso, però, il rapporto deve essere sempre sottoposto a un esame critico. Come funziona la decentralizzazione nella pratica? Chi ne trae dei benefici e chi ci perde? In che modo è possibile bilanciare maggiormente la pratica democratica con le preoccupazioni per un trattamento equo?
La mia terza osservazione riguarda il tema del paradigma. Prima ho suggerito che il riconoscimento dei diversi paradigmi è un valore importante per la pratica democratica, ma oggi tale riconoscimento è molto raro. Il mondo della prima infanzia si trova invece ad affrontare un problema profondamente preoccupante ma in gran parte non manifesto: il solco paradigmatico tra la maggioranza (che si tratti di responsabili delle politiche, esperti o ricercatori), che si colloca all'interno di un paradigma positivistico o modernistico, e la minoranza, che si colloca all'interno di un paradigma variamente descritto come postmoderno, postpositivista o postfondativo. I primi sposano «l'idea moderna della verità che rifletterebbe la natura… [e sono convinti] che il conflitto delle interpretazioni possa essere mediato o risolto in modo tale da fornire una singola teoria coerente che corrisponda al modo di essere delle cose» (Babich, Bergoffen e Glynn, 1995, p. 1). Gli ultimi, invece, adottano «questioni postmoderniste di interpretazione, valutazione e prospettivismo… [e] una realtà interpretabile in vari modi nella quale chiavi di lettura variegate, divergenti, complementari, contraddittorie e incommensurabili si contestano le une le altre» ( ibidem ). Per i primi l'educazione per la prima infanzia si sta avvicinando inevitabilmente alla propria apoteosi grazie alla crescente capacità della scienza moderna di fornire prove incontestabili di ciò che funziona. Per i secondi, invece, l'educazione per la prima infanzia offre la prospettiva di infinite possibilità informate da molteplici punti di vista, conoscenze locali e verità provvisorie.
Ogni fazione ha poco in comune con l'altra. La comunicazione è limitata, perché i modernisti non riconoscono il paradigma, dal momento che considerano il proprio (con relativi valori e assunzioni) come scontato. I postmodernisti, invece, riconoscono il paradigma ma scorgono una virtù limitata in quello della modernità, o, quantomeno, hanno scelto di non collocarsi all'interno di quel paradigma. Un gruppo, perciò, non vede alcuna scelta da compiere; l'altro ha fatto una scelta che implica la necessità di situarsi oltre la modernità.
Le comunicazioni che provengono da un campo sono respinte dall'altro come non valide, incomprensibili, non interessanti o incredibili.
Questo rapporto di distanza e non comunicazione è importante? Non è forse compito dei postfondazionalisti sviluppare discorsi alternativi e un pensiero critico, invece di fraternizzare con coloro con i quali sembrano non avere niente in comune? E i modernisti non dovrebbero forse concentrare la propria attenzione su ciò in cui credono, la produzione della vera conoscenza? Io penso che sia importante. L'assenza di dialogo e di dibattito impoverisce la prima infanzia e indebolisce la politica democratica. La politica e la pratica “tradizionali” sono isolate da un'importante fonte di nuovo pensiero, perché i responsabili delle decisioni politiche hanno scarsa consapevolezza, quando non ne mancano del tutto, di un movimento sempre più forte che mette in discussione molto di quello che essi danno (o che è stato consigliato di dare) per scontato. Viene concesso troppo spazio acritico al discorso dominante che mina sempre più gravemente la democrazia attraverso il già citato processo di depoliticizzazione. Invece di giudicarlo come una prospettiva che privilegia determinati interessi, si arriva a considerare tale discorso come la vera e unica spiegazione, visto che i soli interrogativi riguardano le modalità di implementazione. In questa situazione, le scelte relative alla politica e alla pratica vengono ridotte a domande tecniche limitate e vuote del tipo: “cosa funziona?” (Per una discussone più completa su questo importante aspetto si veda Moss, di prossima pubblicazione, 2007).
Infine, voglio accennare a un ulteriore livello nel quale la pratica democratica è indispensabile (oltre a quello nazionale, regionale, locale e istituzionale): il livello europeo. L'Unione Europea ha una lunga storia di coinvolgimento nella politica e nei servizi dell'educazione per la prima infanzia, sebbene si sia molto limitata nel parlare di “cura dell'infanzia”, perché il suo interesse si è concentrato soprattutto sugli obiettivi politici del mercato del lavoro (inclusa l'uguaglianza di genere nel settore dell'impiego). Seguono due recenti esempi di questo coinvolgimento e un terzo nel quale l'educazione per la prima infanzia dovrebbe essere presente, anche se non è così.
Nel 2002 il governo europeo ha stabilito, in un incontro tenutosi a Barcellona, che «entro il 2010 gli Stati Membri dovrebbero sforzarsi di fornire servizi per la prima infanzia ad almeno il 90 per cento dei bambini di età compresa tra i 3 anni e quella prevista per la scolarità obbligatoria e ad almeno il 33 per cento dei bambini sotto i 3 anni». Tale obiettivo puramente quantitativo non dice niente sull'organizzazione o il contenuto di tali spazi: non si fa nessun riferimento, per esempio, ai criteri stabiliti dieci anni prima dai governi degli Stati Membri nell'adottare le raccomandazioni del Consiglio sulla cura dell'infanzia che stabilivano una serie di principi e obiettivi miranti a guidare lo sviluppo qualitativo dei servizi. Gli Stati Membri vengono invece lasciati a perseguire gli obiettivi di Barcellona «in linea con gli schemi [nazionali] previsti per i servizi».
Nell'aprile del 2006 la cosiddetta Direttiva Bolkestein – o, meglio, la Direttiva dei Servizi, per usare il suo vero nome – è stata sostanzialmente emendata dal Consiglio e dal Parlamento Europeo tralasciando il principio del paese di origine ed escludendo i settori della sanità e dei servizi sociali (inclusa la cura dell'infanzia). In assenza di tali emendamenti, questa proposta di legislazione europea da parte della Commissione avrebbe permesso ai privati di organizzare dei nidi negli altri stati applicando gli standard legislativi del proprio paese e rischiando, così, di provocare un processo di appiattimento verso il denominatore comune più basso (Szoc, 2006).
Nel luglio del 2006 la Commissione Europea ha emesso la comunicazione Verso una strategia europea per i diritti dell'infanzia nella quale propone «una strategia europea globale per promuovere e salvaguardare efficacemente i diritti dell'infanzia nelle politiche interne ed esterne dell'Unione». La buona notizia è che l'UE ha riconosciuto il proprio obbligo di rispettare i diritti dell'infanzia; la cattiva è che la Comunicazione prende degli impegni concreti molto limitati e non ha niente da dire sui diritti dei bambini nelle politiche comunitarie riguardanti la “cura dell'infanzia” (come avevano stabilito gli obiettivi di Barcellona citati prima), politiche che fino a questo momento sono state guidate principalmente dagli obiettivi relativi all'eguaglianza nel mercato del lavoro e all'eguaglianza di genere.
Con alcune eccezioni degne di nota, la comunità della prima infanzia in Europa non è riuscita a dedicarsi a queste e ad altre iniziative: non è stata creata alcuna politica europea per la prima infanzia, nessuno “spazio democratico” nel quale discutere le iniziative politiche dell'Unione Europea e non è stato neppure stimolata la richiesta di nuove iniziative. Non penso sia possibile, e non voglio neanche vedere, un approccio europeo uniforme a tutti gli aspetti della politica, dei servizi e della pratica per la prima infanzia. Dal mio punto di vista, tuttavia, è fattibile e anche desiderabile lavorare democraticamente per identificare un corpus di valori, principi e obiettivi condivisi per i servizi per la prima infanzia: in breve, per sviluppare un approccio o una politica europea all'educazione per la prima infanzia. A conferma di questa tesi, rimando a Quality targets in services for young children , un rapporto stilato da un gruppo di lavoro composto da rappresentanti dei 12 Stati Membri attraverso un processo di consultazione, discussione e negoziazione democratica (EC Childcare Network, 1996). Quality targets fissa 40 obiettivi comuni da raggiungere in tutta l'Europa su un periodo di dieci anni per implementare i principi e gli obiettivi concordati dai governi degli Stati Membri nella Raccomandazione sull'infanzia emessa nel 1992 dal Consiglio. Rileggendo il documento di recente, sono rimasto colpito da quanto sia invecchiato bene, ma anche da come lasci trapelare la potenzialità della pratica democratica di definire un quadro di riferimento europeo per l'educazione della prima infanzia.
Nel 2007 Bambini in Europa, l'unica rivista multinazionale e plurilinguistica, intende stimolare un dibattito democratico all'interno degli Stati Membri dell'UE su come dovremmo e potremmo lavorare per definire un approccio europeo ai servizi per l'infanzia. L'intenzione è di offrire alla discussione e alla confutazione una dichiarazione contenente alcuni valori e principi condivisi. Bambini in Europa non comincerà da zero, ma costruirà su basi europee già esistenti come la Raccomandazione sull'infanzia del 1992 e Quality targets , oltre che sugli impagabili rapporti dell'OCSE Starting Strong (OCSE, 2001, 2006). Mi auguro che anche molti altri parteciperanno allo spazio democratico che Bambini in Europa spera di creare, portando, così, la politica europea nei nidi – ma anche i nidi nella politica europea.

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