martedì 17 maggio 2016

Domandando si impara. Aprile 2016. PRESTO CHE È TARDI! QUANTO TEMPO ABBIAMO?

di Elisabetta Marazzi

La nostra vita quotidiana è governata da un continuo conto alla rovescia, da una costante rincorsa in cui siamo sempre a chiederci: “E adesso cosa facciamo?” o a dire ai bambini cosa devono fare, come se “fermarsi” e “stare” siano indicatori dell’inadeguatezza.
“Gli studi di sociologia del tempo considerano il tempo come il frutto di una costruzione sociale e di una dialettica tra il sistema di esperienza-condotta individuale e i sistemi collettivi di organizzazione delle attività. In questa prospettiva l’esperienza di socializzazione all’uso del tempo è per il bambino una forma di apprendimento e interiorizzazione dei modi di concepire e vivere il tempo in uso nella società cui appartiene” (A. Bondioli, G. Nigito, a cura di, Tempi, spazi, raggruppamenti, Edizioni Junior, Azzano S. Paolo, Bg, 2008). È la società a dettare sovente i tempi, è il contesto in cui viviamo a scandire i ritmi della vita di ciascuno e in questa scansione i bambini cercano di comprendere come tenere insieme tutti i loro pezzi: quelli della relazione, del gioco, dell’esperienza proposta dall’adulto a scuola e a casa. I bambini ci osservano, ascoltano e rispondono alle nostre, talvolta, troppo frenetiche richieste e quando provano a rallentare i nostri tempi li reputiamo poco interessati, inattivi o oppositivi. La loro inattività viene scambiata quasi per pigrizia anziché per bisogno di elaborazione degli apprendimenti e ridefinizione del proprio essere nello spazio e nel tempo di appartenenza: “La moltiplicazione di stimoli […] crea una massa di dati che chi li subisce non è messo nella condizione di poterli assimilare, nel nostro caso di renderli esperienza […] gli episodi non accedono ad unità, rimangono gli urti, gli chocs, le combinazioni casuali. Il comportamento rischia di perdere quella dimensione di riflessione indispensabile a renderlo atto libero e responsabile. Viene annullata la sensazione di appartenenza di sé rispetto ai propri vissuti” (P. Malavasi, a cura di, Pedagogia dell’ambiente, ISU, Milano, 2005).
Ecco allora che riappropriarsi del tempo e dei tempi di vita, di lavoro, di gioco e di ozio (inteso come un fare altro) permetterebbe ai bambini di occuparsi della narrazione di sé e delle esperienze vissute per rielaborarle e farle proprie. Impadronirsi nuovamente di tali tempi significa assumersi la responsabilità, in qualità di professionisti, di scegliere come organizzare e gestire i tempi dei servizi educativi in modo tale che siano efficaci per la narratività dei bambini e non per la richiesta acritica di alcune scelte sociali, per la narrazione di un processo e non per la realizzazione di un prodotto: “Una buona organizzazione è quella che presenta un disegno chiaro degli eventi della giornata, un’articolazione dei momenti di routine e di attività che si mantiene stabile nel corso del tempo […]. L’agenda della giornata non deve tuttavia essere assolta in modo rigido, ma così da tenere conto delle esigenze impreviste sia dei singoli che del gruppo e senza trascurare le ricadute educative che una tale organizzazione – con i suoi ritmi, scansioni e alternanze, con le esperienze e le attività che propone – può di giorno in giorno determinare” (Bondioli e Nigito, op. cit.).

Un bel dì il Cappellaio Matto di Lewis Carrol disse ad Alice: “Se tu conoscessi il Tempo come lo conosco io, non ne parleresti con tanta confidenza. […] Se invece ti fossi mantenuta in buoni rapporti con lui, farebbe fare al tuo orologio tutto quello che vuoi”... che avesse ragione?!

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